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Incentivi al lavoro: valutare per spendere meglio*

Dopo le misure del 2015, dal gennaio di quest’anno è in vigore una nuova forma di sgravio contributivo per favorire l’assunzione stabile dei giovani lavoratori. Ma a quanto ammonta in Italia la spesa per incentivi al lavoro? Come valutarne l’efficacia?

Quindici forme di incentivi

Gli incentivi al lavoro non sono una novità tra gli strumenti di politica economica utilizzati in Italia e all’estero per sostenere l’occupazione. Possono avere natura temporanea oppure stabile, essere circoscritti ad alcune categorie di lavoratori o più generalizzati. Quelli temporanei di solito vengono utilizzati in chiave anticiclica e tendono ad avere platee più ampie; quelli stabili invece tendono a essere concentrati su categorie specifiche, considerate più svantaggiate nel mercato del lavoro anche in condizioni di ciclo più favorevole. Gli incentivi possono poi tradursi in riduzioni del costo del lavoro di carattere previdenziale, nel caso di sgravi contributivi, o di natura fiscale, nel caso di crediti di imposta.

Come emerso anche da una recente ricognizione, il panorama di queste misure in Italia è ampio e variegato. Se guardiamo a quelli diretti a giovani, apprendisti, disoccupati, cassintegrati, giovani genitori, lavoratori che sostituiscono genitori in congedo, donne, disabili, detenuti e altre categorie svantaggiate, ne contiamo circa quindici. Se includiamo poi anche quelli rivolti direttamente al lavoratore (come per il “rientro dei cervelli”) e per l’autoimpiego, arriviamo quasi a venti tipologie di incentivi diversi.

Talmente tanti che, in alcuni casi, non sono neppure conosciuti e utilizzati. Come il bonus di 5mila euro per l’assunzione di genitori sotto i 35 anni: di oltre 50 milioni stanziati, solo 4,7 sono stati utilizzati nel 2015 e 7,4 nel 2016. O come l’incentivo per l’assunzione di tirocinanti extracurriculari: il fondo a disposizione era di 90 milioni, ma l’utilizzo per il 2016 si è fermato a quota 26,7. Altri incentivi sono invece più diffusi, come quelli per gli apprendisti: nel 2015 sono costati più di un miliardo e seicento milioni e l’onere provvisorio per il 2016 supera il miliardo e mezzo.

Eccezione o regola?

Sull’efficacia delle misure la letteratura internazionale presenta risultati diversi. L’aspetto su cui sembra però esserci accordo riguarda l’opportunità di adottare gli strumenti in chiave anti-ciclica, e quindi in via temporanea, nei periodi di recessione. Mentre sul lungo periodo appaiono più efficaci politiche che affrontino i nodi strutturali di un mercato, come la formazione e i servizi per l’incontro di domanda e offerta.

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Per quanto riguarda i nodi del mercato italiano, due appaiono i capitoli su cui intervenire: da un lato un rafforzamento della domanda di lavoro, soprattutto di quella più qualificata e meno sostituibile attraverso delocalizzazioni; dall’altro un miglioramento dei meccanismi che consentano un efficace incontro tra domanda e offerta e una adeguata riqualificazione e (ri)allocazione dei lavoratori.

Il primo aspetto richiede un innalzamento del valore aggiunto nelle nostre produzioni e della loro presenza sui mercati internazionali – un obiettivo che è alla base del piano Industria 4.0 e del piano straordinario per l’export varato nel 2015, su cui si iniziano a vedere alcuni risultati positivi.

Il secondo aspetto chiama invece in causa il sistema dei servizi per l’impiego e delle politiche pubbliche, un tema su cui si è intervenuti con alcune misure del Jobs act, ma su cui sono necessari ulteriori sforzi.

Da questo punto di vista l’Italia mostra infatti di avere importanti carenze e alcune distorsioni. Fatta cento la spesa complessiva per le politiche del lavoro, nel nostro paese la quota utilizzata per incentivi si rivela particolarmente alta, anche in periodi non interessati da recessioni (figura 1). Nel 2015, il 13 per cento della spesa era rivolta a incentivi e solo il 2,6 per cento veniva per esempio investito nei servizi per l’impiego. Numeri ben diversi da altri nostri partner europei, dove la maggior parte degli investimenti è rivolta proprio a servizi e formazione.

Nello stesso anno, in Italia, il 73 per cento della spesa complessiva veniva rivolto a politiche assistenziali di supporto al reddito, percentuale simile alla Spagna ma ben al di sopra della Germania, dove si fermava a quota 53 per cento.

Figura 1 – Capitoli di intervento, sul totale della spesa nel mercato del lavoro (Dal grafico è esclusa la spesa in politiche assistenziali)

Fonte: Eurostat

Allargando lo sguardo ai paesi Ocse, la spesa in incentivi in Italia – in questo caso rapportata al Pil – si conferma particolarmente alta e ben lontana da quella di altre nazioni (figura 2). Un esito analogo riguarda poi il numero di persone interessate dalle misure di incentivazione: nel 2015 circa il 4 per cento della forza lavoro italiana (figura 3).

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Figura 2. Spesa pubblica in incentivi, sul Pil

Fonte: Ocse

Figura 3. Partecipanti ai programmi di incentivi, sulla forza lavoro

Fonte: Ocse

Una necessaria valutazione di impatto

Un capitolo di spesa così importante, e spesso preferito ad altre forme di intervento, richiederebbe uno sforzo altrettanto considerevole in termini di valutazione di impatto. Purtroppo, finora non esiste in Italia una valutazione sistematica degli effetti dei numerosi incentivi adottati. Neppure un’interrogazione depositata alla Camera dei deputati nel luglio 2017 è riuscita a ottenere dati puntuali su stanziamenti, costi e tiraggio di tutti gli incentivi oggi esistenti. Anche il monitoraggio dell’impatto del Jobs act, che la legge prevede con cadenza almeno annuale, va a rilento: dopo il rapporto del 2 settembre 2016, la Commissione preposta non risulta essere stata neppure riconvocata. Forse, il primo passo per politiche occupazionali efficaci è proprio il miglioramento delle analisi di impatto che dovrebbero accompagnare ogni misura e aiutare nella scelta delle priorità su cui investire nel futuro.

*Irene Tinagli è deputata del Partito democratico

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  1. Savino

    Assolutamente immorale la proposta di Berlusconi di non far gravare alcuna tassa imposta per ben 6 anni a chi assume giovani a tempo indeterminato. Incentivo e ricatto sono due cose diverse. Ricordo a tutti, in particolare a quelli che continuano a fare orecchie da mercante, che, da codice civile, è l’imprenditore il soggetto tenuto a rischiare, se dotato di coraggio e capacità per farlo, non altri.

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