Sulla web tax scende in campo l’Ocse. La sua proposta permetterebbe di superare sia il vincolo della presenza fisica sia quello della tassazione del singolo veicolo societario anziché del gruppo, con la ripartizione del profitto basata su tre parametri.

Modello in crisi

Si sta giocando, sulla web tax, una partita di grande rilievo: quella di una nuova modalità di tassazione delle attività transnazionali. I modelli di tassazione di tali attività rispondono, oggi, a due criteri guida. Il primo è quello della presenza fisica: il ricavato delle attività di un’impresa estera è tassabile nello stato del mercato pagatore solo se le attività sono ivi esercitate attraverso un’entità materiale (“stabile organizzazione”) presente sul territorio di quel mercato. Il secondo è quello della tassazione di singoli soggetti passivi d’imposta e non del soggetto apicale cui sono riconducibili. Contribuenti sono le singole società che compongono un gruppo di imprese e non il gruppo in sé.

La crisi di questo modello non l’ha prodotta certo la web economy, ma non c’è dubbio che essa ne abbia sottolineato oltremodo i limiti. Infatti, ha reso evidente che si può prelevare ricchezza dal mercato “X” (cioè ricevere pagamenti da soggetti che si trovano lì) e pagare le imposte solo nel mercato “Y” (cioè nel luogo dove si è deciso – anche per ragioni solo fiscali – di porre la propria testa). Ha reso evidente, altresì, che si possono – anche per ragioni di mera facciata – costituire società controllate nel mercato “X” cui imputare modeste quote di profitto e concentrare la parte più profittevole su strumenti e attività riconducibili al mercato “Y”.

Sennonché questa ricostruzione mostra una così sfacciata violenza a un’equa ripartizione del diritto a tassare la ricchezza prodotta e scambiata che era impossibile non provocasse una reazione da parte dei vari stati “X”. E infatti Francia e Italia hanno già reagito creando la loro web tax; altrettanto stanno facendo Gran Bretagna e Spagna. Questi paesi si sono mossi sull’onda di una proposta di direttiva Ue del marzo 2018 che non ha trovato l’unanimità di consensi necessaria per la sua adozione formale e che ha incontrato, per converso, l’opposizione degli stati “Y” presenti anche nella Ue (primo fra tutti, ovviamente, l’Irlanda). Donald Trump, col suo stile un po’ arrembante, ha cercato di arginare la reazione degli stati europei minacciando misure doganali “compensative” a carico di Francia e Italia qualora non ritrattino. E i due paesi, con atto di buona volontà, hanno garantito che lo faranno se verrà adottata una più equa normazione in ambito internazionale, cioè in sede Ocse.

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La proposta Ocse

L’Ocse, che pure – sotto evidente influenza americana – non ha brillato in questa vicenda, pare finalmente avviata sulla strada giusta. È in discussione in questi giorni il varo del cosiddetto “Unified Approach”, una filosofia sulla base della quale verrebbero superati d’un colpo sia il vincolo della presenza fisica che quello della tassazione del singolo veicolo societario anziché del gruppo.

Lo Unified Approach consisterebbe innanzitutto nella individuazione del soggetto operante a livello multinazionale nel “gruppo” e nella individuazione del bilancio consolidato quale documento di partenza per la determinazione dei valori da tassare e su cui basare la ripartizione del prelievo fra gli stati in cui le attività economiche vengono in fatto esercitate. Fatto pari a 100 il profitto di gruppo, la ripartizione terrebbe conto di tre diversi parametri.

Il primo (il principale, “Amount A”) attribuirebbe allo stato di residenza una quota pari al profitto ordinario (“routine profit”), tale essendo quello che deriva dall’impiego di un certo capitale e l’assunzione di certi rischi. La parte che eccede detto profitto (“residual profit”) verrebbe assegnata ai mercati (agli stati) in cui si opera sulla base di certi parametri (i ricavi) che prescindono dal profitto teorico ivi realizzato. Considerando questa ripartizione ricca di potenziali conflitti fra stati, il segretariato Ocse propone di determinarne la misura attraverso percentuali fisse e negoziate. Prevede, altresì, la possibilità di ripartire il profitto non già partendo dall’importo consolidato di gruppo, ma separandolo sulla base delle diverse “business lines”, ovvero su base regionale.

Si tratta, chiaramente, di un approccio assai realistico che tende a evitare sgradevoli effetti compensativi fra segmenti di attività che possono essere elevatamente profittevoli ma anche portatori di perdite e nell’intesa che a queste ultime va applicato lo stesso meccanismo applicabile ai profitti.

Il secondo (“Amount B”) e il terzo (“Amount C”) parametro girano intorno alle attività di marketing e distribuzione riconoscendo loro una quota adeguata di partecipazione al profitto di gruppo e distinguendo solo l’ipotesi che risultino “ordinarie” (Amount B) da quella che abbiano funzioni “straordinarie” (Amount C). E misurando le stesse con parametri sostanzialmente riconducibili ai concetti di transfer pricing se non si opta (possibilità prevista) per l’adozione, anche in questo caso, di percentuali fisse.

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L’Ocse mostra, infine, chiara consapevolezza del rilievo politico della proposta in discussione e del fatto che, portando modifiche di sostanza all’attuale distribuzione dei diritti di tassazione, richiede la contestualità dell’entrata in vigore di tutte. In bocca al lupo!

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