L’amministrazione Usa cerca di mantenere le promesse elettorali frenando la concorrenza sleale delle imprese di stato cinesi. Sceglie però i dazi, un metodo sbagliato e inefficace. E in una guerra commerciale chi avrebbe più da perdere è proprio Trump.
Il disavanzo commerciale Usa con la Cina
È di pochi giorni fa l’annuncio dell’amministrazione Trump della prossima pubblicazione di una lista di prodotti cinesi sui quali saranno applicati dazi all’importazione negli Stati Uniti nella misura del 25 per cento. Washington intende in tal modo colpire circa 60 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina (su un totale di oltre 505 miliardi nel 2017, secondo US Census Bureau) per ridurre il disavanzo commerciale statunitense, che con Pechino ha raggiunto ormai i 375 miliardi di dollari: secondo Trump, un saldo “fuori controllo”.
Si tratta del disavanzo commerciale più alto mai registrato da un paese e a gennaio di quest’anno ha raggiunto il valore più elevato dal 2008, con una crescita del 16,7 per cento del deficit bilaterale verso la Cina. È la ripresa della domanda statunitense che ha fatto crescere i consumi e le importazioni di molti beni di consumo, tra cui automobili, cellulari e farmaci dalla Cina, verso la quale sono aumentate anche le esportazioni americane, sebbene a ritmo inferiore.
Benché un disavanzo elevato o crescente non sia un problema di per sé, in quanto corrisponde semplicemente a un aumento dell’afflusso netto di capitale, in questo caso gli Stati Uniti si trovano legati a doppio filo alla Cina, con la quale hanno al contempo il maggior disavanzo e dalla quale ricevono crescenti investimenti, diretti e finanziari, orchestrati in ultima istanza dal partito comunista cinese.
Dazi, uno strumento poco efficace
A poco più di un anno dal suo insediamento, con la minaccia di una guerra commerciale, Donald Trump mette così a segno un altro colpo per mantenere le promesse elettorali di riportare l’America “great again”, facendo rivivere settori e territori, tra cui la Rust Belt, che più di altri hanno vissuto la deindustrializzazione e il declino economico seguiti alla riorganizzazione internazionale delle filiere manifatturiere. Dopo il ritiro unilaterale dal Tpp – l’ambizioso mega-accordo economico transregionale che Barack Obama aveva elegantemente costruito tra Americhe, Giappone e Sudest asiatico per contrastare l’ascesa commerciale cinese – e le critiche reiterate di inefficacia al Wto (World Trade Organization), il presidente Usa prosegue nel suo intento di riprendere nelle sue mani la leva del potere a scapito delle regole dell’attuale (seppure imperfetto e incompiuto) sistema multilaterale degli scambi. Lo fa minacciando di ricorrere allo strumento protezionistico più inefficiente e vetusto, le tasse sulle importazioni, che hanno molti svantaggi certi contro pochi e incerti vantaggi (come ha insegnato al mondo l’esperienza americana dello Smoot-Hawley Tariff Act del 1930). Di sicuro, i dazi faranno aumentare i prezzi di molti beni di consumo, anche quando imposti solo sulle importazioni di beni capitali o intermedi, il cui maggior costo si riverserebbe comunque sul prezzo finale. A nulla serve la precisazione del dipartimento del Commercio americano che i beni di consumo non dovrebbero essere inclusi nella lista. Inoltre, i dazi scatenano ritorsioni i cui effetti sono poco prevedibili, ma di certo, come ha già lamentato la National Retail Federation, faranno star peggio gli esportatori americani e anche le imprese che producono con beni importati.
Solo se la minaccia dei dazi, e delle ritorsioni già annunciate dalla Cina, porterà le due economie più grandi del mondo a un accordo di non belligeranza commerciale e a un’intesa sul futuro del multilateralismo, lo stile provocatorio di Trump avrà portato a qualche risultato. Purtroppo, il costo politico di un’eventuale guerra commerciale è molto più elevato per Trump che per Xi, sia oggi (perché il costo sarebbe pagato dai consumatori americani, non da quelli cinesi), sia in futuro (perché Xi, a differenza del presidente Usa, non ha bisogno di essere rieletto).
L’“aggressione economica” a danno degli Stati Uniti di cui Trump accusa Pechino è stata perpetrata per decenni sotto forma di acquisizione e acquisto di tecnologia attraverso pratiche di licenze imposte alle imprese statunitensi (al pari di tutte le imprese estere) che hanno operato in Cina. Tali pratiche, contrarie ai principi fondamentali del Wto, costituirebbero un’acquisizione indebita di proprietà intellettuale, problema da tempo lamentato non solo dalle imprese statunitensi, ma da tutte quelle estere presenti nel paese asiatico. Quell’acquisizione e quell’apprendimento tecnologico permettono oggi alle aziende cinesi di ambire a diventare leader mondiali in settori avanzati, come dichiarato nel piano Made in China 2025. Non solo si tratta di imprese di stato (autoritario), ma sono ancor più grandi di 15 anni fa, generano enorme sovraccapacità in molti settori, deprimono i prezzi e in tal modo scalzano le altre fuori dal mercato. È questa concorrenza di stato che Trump cerca maldestramente di fermare minacciando di ricorrere ai dazi. Purtroppo, nessuno strumento commerciale sembra all’altezza del compito e rischia invece di innescare guerre economiche ben più gravi e contagiose.
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michele di saverio
Un conflitto doganale può facilmente degenerare in un conflitto armato. E’ successo più volte nella storia, e il WTO è nato proprio con lo scopo di dirimere pacificamente le controversie commerciali.
Anche se le licenze commerciali violano le regole di prorpietà intellettuale, l’imposizione dei dazi senza un preventivo assenso del WTO è un atto di arroganza unilaterale degli Stati Uniti.
A prescindere dagli aspetti legali, un embargo economico può talora essere aggirato tramite delle triangolazioni internazionali. Una volta entrati in possesso di un prodotto meccanico, elettronico, ecc. nulla vieta ai tecnici, attraverso le ben note pratiche di reverse engeneering, di studiare e compendere il funzionamento del prodotto senza ricevere spionaggio industriale e dati tecnici dalla controparte.
E’ semmai strano e singolare che nessun accademico autorevole in USA obbietti contro una politica economica settecentesca, vecchia di secoli, proposta come il “nuovo che avanza”, e che si pensa senza fondamento di poter far funzionare anche oggi.
I dazi possono determinare un rialzo dei prezzi finali al consumo perseguendo l’obbiettivo della FED di un’inflazione al 2%, in modo da attuare una politica fiscale coerente con la politica monetaria della Banca Centrale. Ma soprattutto perseguono piuttosto che l’interesse generale statunitense, l’interesse lobbistico della base elettorale di Trump, fissata in alcuni settori.
E rispondono, tardi,alle svalutazioni dello yuan cinese dal 2015