Forme di partecipazione dei lavoratori nella gestione di società private sono presenti in diversi paesi europei. Anche in Italia potrebbe contribuire a migliorare la cooperazione tra le parti sociali. Ma non esiste un modello unico per realizzarla.

L’esempio di Alcoa

Il recente accordo per l’Alcoa con il 5 per cento della nuova società in mano a un’associazione di lavoratori ha rilanciato il dibattito in Italia sulla loro partecipazione alla gestione delle imprese. L’articolo 46 della Costituzione, che stabilisce il diritto, è una delle varie norme sui rapporti economici mai (o poco) attuate. È un dibattito che va avanti da decenni e anche il Patto per la fabbrica firmato il mese scorso termina proprio incoraggiando una discussione sul tema. Eppure, nonostante l’accordo sul principio generale, il caso dell’Alcoa non ha mancato di suscitare polemiche anche tra i sindacati. Se la Cisl si è espressa molto positivamente, il portavoce della segretaria generale Cgil Susanna Camusso ha definito l’idea “alquanto problematica”, dato che molti dettagli sul funzionamento dell’associazione dei lavoratori ancora mancano.

Manca un modello unico

Guardando al di là dei nostri confini, cosa succede negli altri paesi? Lo scorso anno, nel suo Employment Outlook 2017, l’Ocse ha fornito un panorama sul funzionamento della contrattazione collettiva nei paesi aderenti, affrontando anche il tema della partecipazione.

Al di là della famosa Mitbestimmung tedesca, dall’Employment Outlook si ricava come forme di partecipazione dei lavoratori nella gestione di società private siano presenti anche in Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Ungheria, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Svezia. In Cile, in Grecia, in Irlanda, in Israele, in Polonia, in Portogallo e in Spagna i rappresentanti dei lavoratori possono sedere nei consigli solo delle imprese statali. In alcuni paesi i lavoratori sono nel consiglio di amministrazione, in altri in quelli di sorveglianza. In alcuni casi sono nominati dai sindacati, alle volte eletti direttamente dai dipendenti, in altri casi dai comitati d’impresa (qualcosa di simile alle nostre Rsu, rappresentanze sindacali unitarie). Difficile identificare un modello unico o prevalente. Inoltre, si tratta di una peculiarità europea. Al di là delle imprese pubbliche in Israele, i paesi Ocse non europei non prevedono forme di partecipazione nella gestione delle imprese. In Australia, Belgio, Canada, Estonia, Islanda, Italia, Giappone, Corea, Messico, Nuova Zelanda, Svizzera, Turchia e Stati Uniti, infatti, non sono previste disposizioni specifiche.

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La rappresentanza dei lavoratori a livello di consiglio di amministrazione o gestione non è una forma di contrattazione collettiva, ma può tuttavia contribuire a rafforzare la voce dei lavoratori e il loro potere contrattuale. Soprattutto, potrebbe contribuire a migliorare la cooperazione tra le parti, consentendo ai lavoratori e ai loro rappresentanti di impegnarsi nelle scelte strategiche dell’impresa, con gli oneri (e onori) che ne conseguono.

Ma cosa sappiamo dell’effetto sui risultati delle imprese? Sostanzialmente nulla. Secondo una dettagliata analisi della letteratura da parte dell’European Trade Union Institute, i risultati degli studi disponibili non sono in grado di fornire argomenti convincenti sul nesso causale e comunque non evidenziano nemmeno una chiara correlazione tra la presenza di rappresentanti dei dipendenti a livello di consiglio di amministrazione o sorveglianza e le prestazioni aziendali.

In attesa di studi più chiari, l’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione può cominciare a prendere spunto dalle esperienze europee, al di là di quella più nota in Germania, ma mancando un modello unico, dovrà trovare una via italiana.

* Le opinioni espresse non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

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