Le stime sul salario minimo sono molto variabili perché tutto dipende dalla definizione che se ne darà. Servono nuovi studi e ragionamenti prima di procedere con qualsiasi iniziativa. E la proposta di direttiva della Commissione offre un’indicazione.

La proposta della Commissione

Dopo nove mesi di consultazioni, il 28 ottobre la Commissione europea ha pubblicato una proposta di direttiva su “salari minimi adeguati”. Fortemente voluta dalla presidente Ursula von der Leyen, la proposta intende promuovere la contrattazione collettiva nei paesi europei e assicurare salari minimi adeguati, con poche eccezioni in termini di categorie di lavoratori esclusi.

Dal punto di vista politico, si tratta di un cambio di paradigma notevole, dopo decenni in cui l’attenzione era stata posta quasi esclusivamente sulla flessibilità salariale, che di fatto consiste nel ridurre al minimo il ruolo della contrattazione collettiva e dei salari minimi legali.

Dal punto di vista pratico, gli effetti della direttiva, se approvata in questa forma da Consiglio e Parlamento europei, non saranno immediati. L’Unione Europea non ha competenze in materia salariale (anzi, il Trattato le esclude espressamente) e i paesi nordici sono piuttosto “gelosi” del proprio sistema fondato sulla piena autonomia delle parti sociali. Il testo della proposta, quindi, riflette un delicato equilibrio giuridico e politico, e non impone criteri stringenti. In particolare, paesi come l’Italia, che non hanno un salario minimo definito per legge, non saranno obbligati a introdurlo.

Non sarà, quindi, l’Unione europea a risolvere i tentennamenti italiani sul tema. La Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) di settembre annuncia che, tra i vari disegni di legge che saranno presentati con la Legge di bilancio 2020, uno sarà in materia di salario minimo e rappresentanza delle parti sociali nella contrattazione collettiva. Il Ddl non è ancora disponibile e quindi non si conoscono i contenuti esatti della proposta. Da tempo nel Parlamento italiano giacciono numerose proposte di legge, che di fatto coprono tutto lo spettro politico, per introdurre un salario minimo per legge. Sulla carta, quindi, esiste un’ampia maggioranza favorevole all’introduzione del salario minimo, ma quando si entra nei dettagli, ci si rende presto conto che in realtà si è ancora ben lontani da una proposta concreta e attuabile.

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Come definire il salario minimo?

Un esempio concreto della distanza che ancora passa tra il principio generale e la sua applicazione lo si trova nel Rapporto annuale 2020 dell’Inps.

I ricercatori Inps hanno fatto alcune simulazioni per stimare l’incidenza del salario minimo, ovvero il numero di lavoratori che sarebbero coperti dalla misura, a seconda del valore e della definizione del minimo stesso.

Se è facile dire che il salario minimo deve essere di 8 o 9 euro (lordi) all’ora, meno semplice è chiarire quali elementi della retribuzione devono essere presi in considerazione. Solo il valore nominale lordo o anche la tredicesima (e l’eventuale quattordicesima), Tfr e contributi datoriali? Sembrano questioni tecniche di scarso interesse, ma fanno una differenza enorme.

Come si vede dalla figura 1, la definizione del salario minimo è addirittura più importante del valore nominale nel determinare l’incidenza del minimo. Il grafico ne riporta in arancione le stime Inps secondo quattro configurazioni che possono considerarsi casi estremi rispetto alle cifre in discussione oggi: un minimo di 8 o 9 euro e una definizione del minimo che varia dalla mera retribuzione lorda alla retribuzione lorda comprensiva di ultra-mensilità (tredicesima e quattordicesima) e Tfr.

Il grafico poi riporta in verde l’incidenza del salario minimo nei paesi dell’Unione europea in cui è in vigore. Se consideriamo il caso di un minimo di 8 euro, osserviamo che l’esclusione delle componenti addizionali (che andrebbero quindi aggiunte al minimo) triplica il tasso di incidenza dal 4,7 al 13,8 per cento. Con questa variazione, l’Italia passerebbe dall’essere un paese con un tasso di copertura ben sotto la media, all’essere il quarto paese per incidenza dopo Slovenia, Romania e Germania. Un salario minimo di 9 euro senza ultra-mensilità né Tfr porterebbe addirittura l’Italia in vetta alla classifica europea.

L’enorme variabilità delle stime conferma la necessità di un supplemento di studio e ragionamento prima di procedere con qualunque iniziativa. In questo, la proposta di Direttiva della Commissione europea offre un’indicazione (una richiesta, in realtà) di metodo: gli stati, quindi anche l’Italia, devono mettere in piedi un sistema efficace di raccolta dati e monitoraggio. E le parti sociali devono essere associate al processo.

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Senza nominarla esplicitamente, la Commissione europea ha in mente la Low Pay Commission inglese, composta da rappresentanti delle parti sociali ed esperti dal mondo accademico. Tra il 1997 e il 1999 fu incaricata di definire il livello del salario minimo che l’allora primo ministro Tony Blair introdusse nel 1999; da allora regola le decisioni sulla materia con indipendenza e sulla base di solida evidenza empirica. Un metodo che anche l’Italia dovrebbe seguire.

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