Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato il ritiro dall’accordo sul nucleare firmato con l’Iran nel 2015, dichiarando di fatto l’imminente reintroduzione delle sanzioni economiche.
L’accordo (conosciuto come Jcpoa, Joint comprehensive plan of action), sottoscritto con l’Iran congiuntamente dai cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza Onu (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania e l’Unione Europa, consisteva nel forte ridimensionamento del programma nucleare iraniano (al tempo dell’accordo Teheran possedeva 9 mila centrifughe nucleari operative) in cambio dello stop alle sanzioni economiche internazionali. Sanzioni che, per disincentivare la proliferazione nucleare, comprendevano congelamento di beni all’estero, embargo su petrolio e transazioni finanziarie e dazi commerciali.
L’Unione Europea, che in passato aveva applicato le misure con meno durezza rispetto agli Stati Uniti, si è ora già schierata a favore del presidente iraniano Rouhani nell’ottica di mantenere l’accordo. Ed è proprio partendo dalle relazioni economiche intraprese in questi anni dall’Iran con l’Ue che si può iniziare a tracciare un quadro che cerchi di chiarire quanto e come l’economia iraniana stia funzionando e quanto abbia sofferto le sanzioni.
Attualmente l’Europa rappresenta il terzo partner commerciale per l’Iran, dopo Cina ed Emirati Arabi. Al contrario, per l’Europa, l’Iran risulta solamente il 33esimo partner. Prima che l’Ue decidesse – nel 2011 – di intervenire pesantemente nel commercio fra le due aree geografiche, l’Iran era tendenzialmente un paese esportatore. Da quel momento le esportazioni sono crollate, per poi risalire dopo l’accordo Jcpoa.
Ma cosa è che muove gli interessi commerciali europei nel paese? Principalmente petrolio e prodotti petroliferi. Nel 2017, l’89 per cento delle importazioni europee provenienti dall’Iran rientrava in questa categoria, mentre metà delle nostre esportazioni in terra persiana erano macchinari. Nel 2015, le esportazioni dell’Iran erano per il 70 per cento petrolio e prodotti affini.
La produzione energetica nazionale, invece, vede petrolio grezzo e gas naturale spartirsi la quasi totalità del mercato, con il nucleare che invece ne occupa una fetta piccolissima.
La stessa dinamica di crollo e risalita a causa delle sanzioni si può osservare anche nell’andamento del totale delle esportazioni di petrolio grezzo: i barili venduti al giorno si sono dimezzati dal 2011, per poi risalire dal 2015 al 2016.
Inoltre, l’Iran possiede il 18 per cento delle riserve globali di gas naturale, prodotto che da qui ai prossimi decenni acquisirà importanti quote relative della produzione energetica. Le esportazioni della risorsa hanno visto una leggera flessione solo dal 2013, per poi rialzarsi lievemente, denotando un andamento meno legato alla dinamica delle sanzioni.
Ma, in tutto questo, l’economia iraniana nel suo complesso come è andata? Nonostante siano stati fatti molti studi a riguardo, è rischioso collegare le sanzioni economiche all’andamento economico dell’Iran, sia per la diversità delle sanzioni subite che per i moltissimi fattori che ne influenzano i cambiamenti. Tuttavia, osservare i movimenti dei principali indicatori economici può dare un’idea piuttosto precisa dell’andamento del paese, in particolare separando gli anni delle sanzioni (intensificate nel 2012) da quelli successivi all’accordo.
Il Pil pro capite è crollato proprio nel 2012 e c’è stata una leggera ripresa solamente nel 2016, l’anno successivo all’accordo sul nucleare. Ripresa che è eclatante in termini di crescita: dopo un crollo di quasi 10 punti nel 2012 e tre anni di decrescita o crescita sostenuta, l’economia nel 2016 è salita del 12 per cento. Fluttuazioni troppo importanti per non essere riconducibili alla politica internazionale sul nucleare e alle sanzioni.
Una dinamica simile, in un lasso temporale leggermente diverso, ha coinvolto anche il tasso d’inflazione, che, rimasto comunque sempre sopra il 10 per cento, è quasi quadruplicato in tre anni, per poi ristabilizzarsi dal 2013. La disoccupazione, invece, pare non essere correlata all’andamento delle sanzioni: il tasso è costantemente intorno al 10 per cento, quindi abbastanza alto, con leggeri cali e riprese. Anzi, il tasso di disoccupazione raggiunge il suo minimo proprio nel 2013. Il problema lavorativo è, in questo momento, un fardello pesante per il paese (in alcune regioni il tasso supera il 60 per cento e la disoccupazione giovanile è quasi al 30). Ciò potrebbe derivare da gravi squilibri del mercato del lavoro, che non è ancora maturo (ad esempio, il 42 per cento dei disoccupati possiede una laurea).
Commentare dati sulla condizione della popolazione è più difficile, in quanto sono frammentati e incompleti, mentre numerosi studi sono stati compiuti in ambito sanitario. Nonostante le sanzioni non includessero il commercio di medicinali, infatti, le difficoltà di pagamento e trasporto di alcuni tipi di farmaci hanno complicato la situazione del paese.
In conclusione, gli Stati Uniti hanno fatto una scelta geopolitica di enorme portata, ma, a prescindere dalle questioni di sicurezza internazionale, ulteriori sanzioni economiche saranno per l’Iran un peso notevole da sostenere. Come lo sono state in passato.
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