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Razzismo, l’altra pandemia che infetta gli Usa

L’uccisione di George Floyd da parte di un agente di polizia lo scorso 25 maggio a Minneapolis ha sollevato un’ondata di proteste in tutti gli Stati Uniti e in altre parti del mondo, compresa l’Europa. Il movimento “Black Lives Matter” (“le vite dei neri contano”) ha portato centinaia di migliaia di persone a manifestare contro il razzismo sistemico ancora presente negli Stati Uniti. Non è la prima volta che avviene – nel 2019 a Memphis, nel 2017 a Saint Louis e a Berkeley, nel 2016 a Chicago e Saint Paul e così via – ma è la prima volta che la mobilitazione è così ampia e partecipata, e ha così tanta eco anche fuori dagli Usa.

Il razzismo sistemico nella società americana

Si parla di razzismo sistemico quando la discriminazione avviene a livello istituzionale, con l’esclusione di determinati gruppi di persone, e non necessita di un intento individuale esplicito. La segregazione razziale negli Stati Uniti è stata abolita nel 1964 con la legge sui diritti civili, ma ancora oggi la società americana risente fortemente del fatto che per molto tempo la discriminazione è stata legge e condizionava ogni aspetto della vita delle persone: gli affitti, l’istruzione, i trasporti, la sanità. In alcune città americane, per esempio, le strade sono state costruite in modo da ostacolare l’accesso dei mezzi pubblici – principalmente frequentati da afroamericani – ai quartieri migliori, in modo che ai neri fosse precluso abitarli. Gli effetti di questa sistematica esclusione sono ancora visibili oggi, e si riflettono nel numero di contagi da Covid-19 tra gli afroamericani, nel livello di reddito medio e nelle posizioni lavorative occupate, oltre che negli arresti e nella brutalità della polizia.

Nel 2018 il Dipartimento di Giustizia americano ha riportato che 1.134 afroamericani ogni 100mila vengono incarcerati, il dato più basso dal 1989, in discesa del 28 per cento dal 2008. Nonostante questo, però, la percentuale di popolazione afroamericana presente nelle carceri statunitensi (32,9 per cento) è molto maggiore rispetto alla percentuale di afroamericani sul totale della popolazione americana (12,3 per cento). Il dato non sembra riguardare tutte le minoranze, ma solo i neri: la popolazione ispanica è presente nelle carceri in percentuali solo leggermente superiori alla percentuale di popolazione ispanica negli Stati Uniti. Sempre secondo i dati del Dipartimento di Giustizia, gli uomini afroamericani hanno una probabilità di essere imprigionati 5,8 volte più alta rispetto agli uomini bianchi, ma i più interessati sembrano essere i giovani: la probabilità sale a 8,0 per gli uomini tra i 20 e i 24, e a 12,7 per quelli tra i 18 e i 19 anni. Un quadro simile è dipinto anche dalle altre statistiche che riguardano il rapporto dei neri con lo Stato federale. Il possesso di marijuana è simile tra neri e bianchi, ma i neri vengono arrestati 3,6 volte di più (dati Samhsa), per loro la probabilità di essere messi in libertà vigilata è 4,15 volte più alta e, mentre 12 bianchi su un milione vengono uccisi dalla polizia, i neri uccisi su un milione sono 30.

La discriminazione però non si riflette solamente nei dati sulla criminalità. Gli afroamericani ricoprono posizioni lavorative meno remunerative e più in basso nella gerarchia aziendale rispetto ai bianchi, e i redditi dei primi nel 2017 erano il 62 per cento dei redditi dei secondi. Una conseguenza è stato il più alto tasso di contagi da Covid-19 tra gli afroamericani; il contagio si è infatti diffuso nelle fasce più povere di popolazione in percentuali molto più alte rispetto alla popolazione totale. Il tasso di povertà tra i neri è infatti il 20,7 per cento, più del doppio rispetto all’8,1 per cento di quello tra i bianchi. I neri proprietari di case, inoltre, sono solo il 44 per cento, un dato quasi uguale a quello del 1968 quando è stato approvato il “Fair Housing Act” che impedisce la discriminazione abitativa sulla base della razza.

Il razzismo non è un’opinione, ma…

Se questa è la realtà dei fatti, cosa ne pensano i cittadini americani? Secondo un sondaggio del 2019 del Pew Research Center, la maggioranza dei cittadini statunitensi ritiene che le relazioni tra le diverse etnie siano generalmente complicate (58 per cento) e che il presidente Trump le abbia inasprite (56 per cento). Su questo, le risposte dei cittadini afroamericani e bianchi hanno margini di differenza che non superano il 20 per cento. Mentre se viene loro chiesto di rispondere se il passato di schiavitù sia ancora un’eredità negativa per la condizione degli afroamericani, oppure se corrisponde al vero che uguali diritti tra bianchi e afroamericani non siano ancora garantiti, ecco che le differenze esplodono: con quest’ultima affermazione solo il 7 per cento dei bianchi è d’accordo, rispetto al 50 per cento dei neri. E c’è anche un’altra differenza chiave tra le risposte: tra chi ritiene che essere afroamericani sia un ostacolo per gli individui oggi negli Stati Uniti, ben l’84 per cento dei neri ritiene che la causa sia la discriminazione razziale, mentre tra i bianchi chi risponde allo stesso modo è il 54 per cento (dietro alla difficoltà di accedere alle migliori scuole, che rastrella il 60 per cento delle risposte dei bianchi).

È sempre la rilevazione del Pew Research Center a segnalare come sia diventato più diffuso, secondo la maggioranza degli intervistati, esprimere posizioni razziste dopo l’elezione di Donald Trump. Il problema quindi è percepito in crescita. Lo stesso sta accadendo proprio nelle ultime settimane: un sondaggio condotto da Ipsos e commissionato da Reuters ha svelato una crescente concordia tra gli americani sulla necessità di una riforma della polizia. Una vera novità nel dibattito pubblico sempre più polarizzato che caratterizza gli Usa. Maggioranze schiaccianti, di Democratici e Repubblicani, si trovano d’accordo sul vietare le pratiche più pericolose, richiedere di indossare body camera, rendere possibili indagini indipendenti sui dipartimenti di polizia segnalati per non rispettare le regole, e altre limitazioni alla discrezionalità delle forze dell’ordine. Mentre raccoglie molti meno consensi la proposta di smantellare i corpi di polizia e destinare maggiori risorse alla spesa sociale.

Anche guardando in prospettiva, sembra che negli ultimi anni si stia consolidando una sempre maggiore attenzione e consapevolezza sulla discriminazione razziale. Questa volta i dati sono del General Social Survey (GSS) della University of Chicago: nel 2014 solo il 30 per cento di un campione di non-afroamericani riteneva che le differenze di opportunità tra le etnie fossero dovute alla discriminazione, una percentuale stabile dal 1998, mentre nel 2016 prima e poi nel 2018 è cresciuta fino al 41 per cento. Così si è ridotta la convinzione che le disparità siano dovute a mancanza di volontà da parte dei neri, o da abilità innate (fortunatamente chi lo ritiene è da anni una esigua minoranza).

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  1. Mohamed Mahmoud

    La discriminazione istituzionale su base etnico/razziale è, pur lentamente, destinata a spegnersi: lo stesso ex Presidente Obama era mixed race Luo/indoeuropeo e l’ibridazione complessiva della popolazione rende anacronistica ed inefficace una ghettizzazione formale su base somatica. Purtroppo le discriminazioni basate invece sulle possibilità economiche tendono invece nel mondo ad acuirsi, soprattutto in una società come quella statunitense. Quest’ultimo fattore è quello maggiormente implicato nella crisi attuale, per quanto sia labelled on skin colours da tutti i principali media e dagli stessi manifestanti coi loro slogan. Le persone hanno problemi con le forze dell’ordine principalmente e fondamentalmente poiché povere, il colore della pelle è marginale. Quelli che classifichiamo come “neri” sono molto più spesso delle altre “races” (bianchi e asiatici) poveri, semplicemente. Il tasso di delinquenza, inteso come crimini “classici” (violenti, quelli per cui si finisce in prigione) è superiore nella popolazione “afroamericana” perché molti di più sono gli statunitensi poveri neri degli statunitensi poveri bianchi.

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