Sale il numero dei laureati e quello delle immatricolazioni, mentre calano gli abbandoni: sono le buone notizie del Rapporto Anvur 2018. Diminuisce così il nostro ritardo rispetto agli altri paesi europei. Mancano però dati sulla qualità della didattica.
Il Rapporto Anvur 2018
Il Rapporto 2018 Anvur – Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario – fonte preziosa per chi voglia discutere senza pregiudizi lo stato della nostra università – conferma alcune tendenze ed evidenzia qualche novità rispetto a quello del 2016.
Partiamo dal numero di laureati, l’indicatore più significativo – e più insoddisfacente – del sistema terziario italiano. Da sempre, siamo agli ultimi posti fra i paesi europei nella percentuale di laureati nella popolazione fra 25 e 34 anni. Anche nel 2017, con il 26,9 per cento (dato Eurostat), precediamo la sola Romania, contro una media europea del 39 per cento. La tendenza è, nondimeno, da tempo positiva: la quota di laureati è cresciuta dal 2007 di 8 punti e negli ultimi tre anni l’incremento è stato in media di quasi un punto all’anno, anche se concentrato al Nord.
Da questo punto di vista, dunque, stiamo procedendo di buon passo verso l’allineamento agli standard europei, soprattutto per le lauree magistrali.
Ciò che ci differenzia in negativo dal resto dell’Europa è soprattutto l’assenza di una formazione terziaria professionalizzante, paragonabile alle Fachhochschulen tedesche; da noi esistono solo gli Its (istituti tecnici superiori), corsi biennali non universitari, con appena 4 mila iscritti ogni anno.
Peraltro – non è mai inutile ricordarlo – laurearsi conviene: dal 2015 al 2017, con la ripresa, il tasso di occupazione dei laureati (sempre 25-34) è aumentato di ben 4 punti (66,2 per cento), mentre quello dei diplomati (63,6 per cento) è rimasto sostanzialmente stabile. Mancano invece dati aggiornati sul premio retributivo della laurea lungo il ciclo lavorativo. Un’interessante analisi preliminare su dati Inps ci dice che il salario di ingresso medio di un laureato è inferiore agli 800 euro mensili, con differenze grezze dell’ordine del 40 per cento fra Nord e Sud: non stupisce che sempre più neo-laureati cerchino lavoro all’estero.
Due buone notizie
L’aumento dei laureati dovrebbe proseguire anche nei prossimi anni, alla luce di due buone notizie registrate dal Rapporto: la ripresa delle immatricolazioni e il calo degli abbandoni.
Dopo la forte discesa negli anni della crisi, dal 2014 le immatricolazioni sono tornate a salire: in rapporto alla popolazione dei diciannovenni, siamo passati dal 46,2 al 50,3 per cento. In particolare, rincuora il ritorno all’università dei diplomati tecnici (con un tasso di passaggio cresciuto dal 22 al 26 per cento in quattro anni) e professionali (dall’8 al 10 per cento): poco aiutati da un sistema di diritto allo studio sostanzialmente pro-ciclico (con meno risorse disponibili durante le recessioni), su questi studenti provenienti da famiglie più vulnerabili si era abbattuta con violenza la crisi economica.
Va, inoltre, segnalato l’avvenuto “sorpasso” delle immatricolazioni nei corsi dell’area scientifica (36 per cento) rispetto a quelle dell’area sociale (34 per cento) e umanistica (20 per cento): è probabile che le migliori prospettive occupazionali delle lauree della prima area abbiano pesato nelle scelte, anche se con il ritorno all’università di studenti più “deboli” la tendenza potrebbe modificarsi nei prossimi anni.
Nel 2017-18 l’aumento delle immatricolazioni ha segnato, però, una battuta d’arresto: nei prossimi mesi sarà importante capire se si è trattato di un semplice episodio oppure di una nuova preoccupante inversione di marcia.
La seconda buona notizia è la significativa riduzione degli abbandoni, piaga cronica dell’università italiana che conduce alla laurea appena il 60 per cento degli immatricolati entro otto anni. In particolare, il tasso di rinuncia dopo il primo anno, pari al 16 per cento dieci anni fa, è ora sceso al 12, lasciando presagire un aumento della percentuale di laureati in futuro, a parità di altre condizioni. Il fenomeno può essere spiegato da effetti di composizione, come le minori immatricolazioni di studenti deboli durante la crisi o il maggior ricorso a test di ingresso, come pure una maggior attenzione degli atenei alla didattica (in tre anni le ore di didattica pro capite sono passate da 95 a 102) e al contrasto alla dispersione, legata agli incentivi nella distribuzione del finanziamento ordinario.
Se dunque gli indicatori quantitativi ci parlano di un restringimento del nostro ritardo dalla media europea, nel Rapporto mancano, invece, indicatori per una valutazione della qualità della didattica, sebbene si preannunci un uso più diffuso dei questionari degli studenti (che peraltro possono fornire giudizi distorti nelle classificazioni). Sulla qualità e sul suo monitoraggio è necessario tenere alta l’attenzione: l’aumento dei laureati è avvenuto, infatti, in presenza di una riduzione delle risorse economiche (-20 per cento in termini reali rispetto al 2008) e dei docenti (-13 per cento), per effetto del pensionamento di numerosi ordinari e dei limiti posti al turnover. Il rischio è che, con l’aumento dei frequentanti e il sovraffollamento delle aule, l’insufficienza delle risorse investite nel personale e nella didattica porti alla lunga a un abbassamento della qualità media.
Mentre sottolinea i progressi sul fronte della qualità della ricerca, il Rapporto Anvur riserva, invece, un’attenzione ancora troppo ridotta alle attività di terza missione da parte degli atenei, ovvero le molteplici declinazioni con cui l’uso della conoscenza favorisce lo sviluppo socio-culturale dei territori. Un vero peccato, perché la valorizzazione delle ricadute sociali servirebbe a contrastare l’opinione negativa che il pubblico (e anche qualche istituzione pubblica) si è fatto dell’università a seguito degli scandali concorsuali.
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Marcello Romagnoli
In termini di risorse le università italiane, falsamente accusate di inefficienza, versano in condizione non difficile: casomai drammatica. Secondo i dati OCSE per ogni studente l’università riceve il 30% in meno di fondi rispetto alla media europea. Questo produce uno scivolamento delle stesse nei fantomatici (e più di marketing) rating mondiali che tutto basano, direttamente o indirettamente, sui fondi a disposizione. Posizionamenti non esaltanti a causa degli scarsi finanziamenti vengono poi usati per dire che gli atenei italiani non sono di grande valore e quindi è inutile finanziarli. La terza missione dipende anche molto dalle aziende che non sono strutturate spesso per avere contatti con le università più che l’incapacità di queste di dare risposte. Circa la qualità della didattica, i questionari ci sono, ma non vengono usati a dovere. Come si valuta la didattica è un altro bel problema. Forse che all’estero hanno sistemi migliori???
Andrea Gavosto
rispondo sulla valutazione della didattica. se ne è occupato Matteo Turri nello studio Calimero su AVA reperibile su http://www.fondazioneagnelli.it e il focus internazionale di Scuola democratica e Fond Agnelli, anch’esso reperibile sul sito. In sintesi, la valutazione della didattica è molto rudimentale ovunque, E’un po’ più avanti in Inghilterra.
gianmario raggetti
Ottimo articolo, che suscita alcune curiosità. In particolare, sarebbe da confrontare l’evoluzione del numero di laureati nei vari paesi distinguendo però tra paesi in cui esiste, o meno, il valore legale del titolo di laurea, triennale e magistrale. Sarebbe anche interessante capire in quali paesi ed in quali università si adotti, o meno, il numero chiuso. Occorre anche conoscere, il costo medio delle tasse di iscrizione per accedere all’università pubblica nei vari paesi considerati. Interessante, anche conoscere il livello di spendibilità di un titolo accademico rilasciato in un dato paese, nel contesto europeo: un titolo che possa assicurare la prosecuzione degli studi (laurea magistrale, master, dottorato,..) in altri paesi europei.
A livello domestico, sarebbe utile conoscere il livello di attrazione di ciascun ateneo di studenti extra regione ed extra-nazione, come anche il flusso di laureati triennali che proseguono il biennio specialistico in atenei diversi da quello iniziale..
Andrea Gavosto
grazie, sono tutti ottimi spunti per la ricerca. Telegraficamente:1. sul valore legale (o in generale la certificazione degli apprendimenti) sappiamo che è tipicamente un fenomeno dell’Europa continentale, ma non ho mai visto correlazioni con numero di laureati; 2. sulle tasse, da vedere Eurydice (National Student Fee and Support Systems in European Higher Education – 2017/18), che mostra come l’Italia richieda tasse apprezzabili non compensate da un sistema generalizzato di supporto al diritto allo studio. La tassazione media italiana (1.300 € e 1.500 € rispettivamente per il primo e per il secondo ciclo di istruzione superiore) si colloca in posizione intermedia Peraltro, in Italia solo il 9% degli studenti riceve un supporto allo studio tramite borse o altri strumenti, come il 25% dei tedeschi, il 39% dei francesi, 54% degli inglesi, 66% dei finlandesi e 85% dei danesi; 3. I cfu europei sono trasferibili nei paesi che partecipano al Bologna process (così come i titoli possono essere fatti riconoscere nell’ambito dell’UE); 4. Quanto al livello di attrazione di ciascun ateneo di studenti extra regione ed extra-nazione, suggerisco di consultare il sito http://anagrafe.miur.it/ : segue tutti gli immatricolati dal diploma di maturità fino al voto di laurea. La fonte per monitorare i laureati dopo il conseguimento del titolo è invece AlmaLaurea, che soffre tuttavia di attrito crescente con il tempo trascorso dall’uscita dal sistema.
davide mancino
Andrea, ho trovato interessante la parte in cui dici che una “analisi preliminare su dati Inps ci dice che il salario di ingresso medio di un laureato è inferiore agli 800 euro mensili”. Questo dato sembra in enorme contrasto rispetto a quelli di Alma Laurea, secondo cui lo stipendio medio di un laureato magistrale, un anno dopo aver conseguito il titolo, nel 2017 è stato di circa 1.100 euro (netti). Potresti cortesemente linkare l’analisi che citi, sarei curioso di verificare da cosa possono dipendere le differenze.
Grazie,
Federico Quaresima
Da giovane assegnista di ricerca mi vien da pensare all’estrema importanza che dovrebbe avere un sistema di valutazione della didattica, ad oggi inesistente. I questionari possono avere delle distorsioni incredibili.. L’Anvur sta ragionando su un possibile sistema alternativo? Spero di sì, io non mi occupo di Education (nella ricerca) e spero sinceramente che mi stìa sbagliando.
Andrea Gavosto
credo che l’anvur punti sul costo standard come valutazione della diattica. Secondo questo criterio il giudizio lo danno gli studenti, muovendosi verso gli atenei migliori: le tasse universitarie li seguono (tipo voucher). Per ora è applicato al 25% nella distribuzione dell’FFO, anche se la legge prevederebbe un’applicazione al 100%