Nel 1981 l’amministrazione Reagan rispose alla concorrenza europea e giapponese con sgravi fiscali per la ricerca e sviluppo. Fu una scelta corretta. Il protezionismo riduce gli incentivi a innovazione e crescita, con gravi danni nel lungo periodo.

Protezionismo e innovazione

Evocando ragioni economiche e di sicurezza nazionale, a marzo il presidente Trump ha introdotto dazi su molti beni importati da Cina, Europa, Canada, Giappone e altri paesi. A cominciare dalla Cina, i partner commerciali colpiti hanno risposto innalzando tariffe sui beni americani, dando così vita a una delle guerre commerciali più importanti dal dopoguerra. In campagna elettorale, Trump aveva dichiarato che avrebbe attuato una politica economica nazionalista, seguendo l’esempio di Ronald Reagan. Tuttavia, il presidente Reagan varò sì alcune manovre protezioniste, inclusi dazi del 49 per cento sulle moto giapponesi voluti da Harley-Davidson, ma le sue misure furono più mirate e non ebbero alcun effetto sul livello di protezione media dell’economia americana. D’altra parte, Reagan attuò anche politiche di apertura delle frontiere, compreso l’inizio delle trattative per il North American Free Trade Agreement (Nafta).

In un lavoro recente, scritto con Ufuk Akcigit e Sina Ates, suggeriamo che fu la politica di innovazione piuttosto che il protezionismo la risposta vincente di Reagan alla concorrenza internazionale. Gli anni Ottanta vedono infatti l’introduzione di una serie di politiche industriali volte a migliorare la competitività delle imprese americane. Misure che vanno dagli incentivi fiscali all’innovazione, alla protezione dei diritti di proprietà intellettuale, al trasferimento di tecnologie militari ad applicazioni commerciali, alle commesse pubbliche delle grandi agenzie dalla Nasa al Deparment of Defense, volte a creare mercati di dimensione appropriata per le imprese innovative. Nel nostro lavoro abbiamo analizzato gli effetti della Research and Experimentation Tax Credit (Erta), un credito d’imposta per l’innovazione introdotto nel 1981, successivamente rinnovato più volte e reso permanente nel 2015. Abbiamo poi comparato gli effetti di questa politica con quelli di una ipotetica risposta protezionistica in stile Trump.

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La figura 1 mostra l’erosione della leadership tecnologica americana, misurata dalla quota dei brevetti ottenuti dalle imprese americane nell’Ufficio brevetti Usa (Uspto). La dinamica è dovuta all’accelerazione dell’attività innovativa da parte di imprese giapponesi ed europee. Una convergenza tecnologica che si estende anche alla distribuzione globale degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S), delle quote di mercato e della crescita economica in generale. La figura mostra anche l’inversione di tendenza nella metà degli anni Ottanta, poco dopo l’introduzione dei sussidi fiscali all’innovazione, con la quota di brevetti americana che torna a crescere e una contemporanea accelerazione della quota degli investimenti americani in R&S.

Figura 1 – Concorrenza internazionale, innovazione, e incentivi fiscali: 1975-199

Le nostre simulazioni, ottenute con un nuovo modello macroeconomico dell’economia mondiale, suggeriscono che i sussidi all’innovazione relativi all’Erta hanno promosso la crescita del Pil americano nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo. Riducendo il costo della R&S, i sussidi stimolano l’attività innovativa, promuovendo la crescita della competitività e, di conseguenza, riportando profitti, salari e posti di lavoro in America.

L’importanza della concorrenza

Nel nostro secondo esperimento ci chiediamo cosa sarebbe successo se Reagan, invece di incrementare i sussidi all’innovazione, avesse aumentato del 50 per cento i dazi su tutte le importazioni. Questa politica genera benefici nel breve periodo (10-15 anni) perché protegge le imprese americane dalla concorrenza estera aiutandole a mantenere quote del mercato interno. Nel lungo periodo, però, si osservano perdite sostanziali nella crescita in quanto si riduce l’incentivo delle imprese americane a innovare. Inoltre, i benefici di breve periodo si ottengono solo nell’ipotesi che i partner commerciali non rispondano ai dazi. Nel plausibile scenario nel quale gli altri paesi introducono dazi di ugual misura, anche i benefici del breve periodo spariscono. Le tariffe straniere infatti danneggiano gli esportatori americani, riducendo le loro quote nei mercati esteri e diminuendo i loro incentivi a innovare.

Analizziamo poi le politiche ottimali, ossia il livello di sussidi e di barriere tariffarie che rende massimo il benessere economico del paese. Le nostre simulazioni indicano che il sussidio ottimale all’innovazione è inversamente proporzionale all’apertura ai mercati internazionali. Basse barriere commerciali generano un alto livello di concorrenza che spinge le imprese a innovare, rendendo meno necessari gli interventi pubblici a sostegno dell’innovazione. Il risultato è di sostegno alla proposta del governo inglese di una nuova strategia industriale come complemento a Brexit, con un’importante avvertenza: sostenere innovazione e crescita con gli sgravi fiscali più che con la concorrenza internazionale ha implicazioni importanti per la finanza pubblica.

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In una intervista del 1988 al New York Times, Vaughn Beals, amministratore delegato di Harley-Davidson dichiarò: “Per anni abbiamo provato a capire perché i giapponesi ci battessero sistematicamente. Prima pensavamo fosse la loro cultura. Poi credevamo fosse l’automazione, … poi il dumping. Alla fine, abbiamo capito che il problema eravamo noi, non loro!” La qualità delle moto americane era molto più bassa di quella giapponese. Capito ciò, cominciarono a innovare e il successo non tardò ad arrivare.

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