Il reddito di cittadinanza può funzionare solo se funzionano i centri per l’impiego. E infatti il M5s pensa di dedicare più di 2 miliardi alla loro riorganizzazione. Ma non è solo un problema di risorse, vanno affrontate le questioni strutturali.
Il contesto
In un quadro di precarietà e insicurezza come quello che contraddistingue oggi l’Italia, al centro dell’agenda politica si trova la realizzazione di una rete di protezione sociale a tutela del lavoratore disoccupato. La rete dovrebbe nascere dalla attuazione delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Sono quelle politiche rivolte al rapido reinserimento del lavoratore disoccupato all’interno del sistema produttivo tramite interventi di orientamento e formazione, per garantire un miglior allineamento della domanda e dell’offerta di lavoro. Dagli anni Novanta in poi, sono molti i governi che hanno provato a rafforzare la loro incisività ed efficacia. Basta pensare al Jobs act.
Nel sistema italiano i principali erogatori pubblici di politiche attive per il lavoro sono i centri per l’impiego (Cpi). Nell’ultimo periodo, sono stati al centro di forti polemiche perché colonne portanti per l’attivazione della riforma sul reddito di cittadinanza fortemente voluta dal Movimento 5 stelle.
Che cosa sono i Cpi?
I centri per l’impiego sono strutture pubbliche il cui principale obiettivo è far incontrare domanda e offerta di lavoro nel proprio territorio. Si rivolgono principalmente ai disoccupati, ai lavoratori in cerca di nuova occupazione e ai lavoratori beneficiari di sostegno al reddito.
L’Istat ha provato a tracciare il profilo dell’utente medio di un Cpi: i contatti sono più frequenti nelle regioni del Nord, tra gli uomini di età superiore a 50 anni, con un titolo di studio intermedio (diploma, ma non laurea), disoccupati da meno di 12 mesi. In Italia sono attualmente presenti 501 sedi principali, da cui dipendono 51 sedi secondarie e 288 sedi distaccate (o sportelli territoriali). La maggior parte si trova in Puglia, Campania e Lombardia.
È solo tramite il decreto legislativo 150 del 2015 (uno dei decreti applicativi del Jobs Act) che la gestione dei centri per l’impiego e, più in generale, delle politiche attive per il lavoro è stata affidata alle regioni e province autonome. A cui si affianca l’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro), che svolge principalmente un ruolo di raccordo e coordinamento.
La caratterizzazione regionale, tuttavia, è alla base delle differenze strutturali e di standard che caratterizzano il sistema.
Quali sono le criticità?
È proprio un’indagine statistica condotta dall’Anpal tra dicembre 2016 e agosto 2017 che può aiutarci a disegnare un quadro abbastanza completo dello stato di salute dei centri per l’impiego, differenze regionali incluse. È utile sottolineare che la natura poco flessibile del mercato del lavoro italiano sicuramente costituisce un ostacolo al loro buon funzionamento.
Infatti, l’indagine Anpal riscontra forti criticità sia dal lato della domanda di lavoro che da quello dell’offerta. Dal lato della domanda (quello dell’impresa), le scarse opportunità lavorative del territorio e la presenza di troppe proposte a termine sono i problemi più citati. È interessante notare come il primo riguarda soprattutto il Sud, mentre il secondo (insieme ai problemi relativi a crisi industriali, settoriali e squilibri tra competenze richieste e offerte) incide maggiormente al Nord. Dal lato dell’offerta (quello delle persone in cerca di lavoro), invece, i problemi ricorrenti sono l’elevata disoccupazione giovanile e over 45. Queste fasce d’età sono infatti più difficili da gestire, soprattutto in un mercato del lavoro bloccato.
Al Sud vi è poi un’alta propensione alla disoccupazione di lunga durata, mentre al Nord, soprattutto al Nord-Est, il divario tra le competenze richieste dai datori di lavoro e le competenze degli aspiranti lavoratori sembra essere un problema più che rilevante.
Tabella 1
Un altro grave problema dei Cpi individuato dall’indagine Anpal è la carenza di personale, di attrezzature e di competenze. Poco meno di 8mila operatori sono chiamati a far funzionare il servizio. Nel complesso delle attività svolte, a farne le spese è in particolare l’orientamento di secondo livello, che comprende più approfondite attività di profilazione dell’utente e consulenza orientativa. Basti considerare che solo il 26 per cento degli operatori ha conseguito un titolo universitario (solo il 17 per cento al Sud), il 56 per cento si ferma al diploma superiore e un 13 per cento addirittura alla licenza media. È proprio di figure specialistiche che i Cpi necessitano, in particolare orientatori e psicologi, personale amministrativo e consulenti aziendali e giuristi (contributo di Francesco Giubileo).
Benché sia un requisito fondamentale per la creazione di un sistema moderno ed efficiente, anche sotto il profilo informatico le carenze sono tante: il 18 per cento delle criticità osservate riguarda l’inadeguatezza dei software (18 per cento), cui si aggiunge un 9 per cento di mancanza di hardware.
E infatti, quasi il 50 per cento dei Cpi intervistati dichiara di non possedere una dotazione informatica adeguata per il personale. Il 36 per cento, inoltre, afferma di non possedere una connessione in rete appropriata.
Altre criticità segnalate sono la mancanza di spazi adatti e l’inadeguatezza delle banche dati disponibili.
Figura 1
I motivi dello scontento
Per quanto riguarda la qualità dei servizi resi, l’indicatore di posizionamento costruito dall’Anpal ci indica che la media nazionale si attesta su 62 punti su 100, un valore che maschera un sistema ancora indietro rispetto alle esigenze a cui è tenuto a rispondere. La media si abbassa se guardiamo al Mezzogiorno, mentre è più alta se prendiamo solo il Centro Italia. Valori attorno al 90 si riscontrano solamente nel 95esimo percentile della distribuzione dei Cpi.
Per quanto riguarda la qualità dei servizi alle imprese la situazione è ancora peggiore, con un valore medio nazionale di 50 punti su 100.
Figura 2
Anche i giudizi degli utenti non sono positivi: sono pochi quelli che scelgono di rivolgersi a un Cpi e molti gli insoddisfatti. Dall’Indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi pubblici in Italia e all’estero condotta dall’Istat nel luglio 2018 è emerso che i centri per l’impiego giocano un ruolo del tutto marginale nel ricollocamento dei lavoratori in cerca di occupazione.
In media, ogni persona compie 3,5 azioni di ricerca di un lavoro al mese. Nel 2017, sono l’87,3 per cento i disoccupati che si sono rivolti a parenti, amici e conoscenti per trovare un lavoro, il 70,3 quelli che hanno inviato il curriculum vitae e il 58,9 quelli che hanno consultato internet. Ma solo una persona disoccupata su quattro si è rivolta a un centro per l’impiego.
Figura 3
In più, anche le persone che vi si sono rivolte considerano i centri per l’impiego poco efficienti. Solo il 2,4 per cento ha ritenuto utile il servizio offerto. I picchi d’insoddisfazione si registrano al Nord, dove appena l’1,8 per cento si ritiene soddisfatto del servizio ricevuto. Lo stesso vale se ci si focalizza sulla fascia più giovane della popolazione, quella compresa tra i 15 e i 24 anni: solo l’1,7 per cento ha ritenuto utile il contatto con un Cpi per trovare l’attuale occupazione.
Figura 4
Il quadro d’inefficienza e insoddisfazione non stupisce se si dà un’occhiata ai dati Eurostat sugli investimenti che negli anni sono stati dedicati allo sviluppo di questo tipo di servizi. In Italia soltanto lo 0,04 per cento del Pil è destinato alla creazione e mantenimento dei servizi pubblici per l’impiego. Spesa di gran lunga inferiore rispetto a quella sostenuta dalla Germania (0,36 per cento), dalla Francia (0,25 per cento) e dalla Spagna (0,14 per cento). Ciò che spendiamo in politiche del lavoro è in larga parte riversato nelle politiche passive (trasferimenti monetari).
Nella proposta del Movimento 5 stelle, il progetto di rilancio dei Cpi, fondamentale per far funzionare il reddito di cittadinanza, prevede un investimento di oltre 2 miliardi.
Basterà aumentare le risorse? La dotazione prevista è considerevole, ma le problematiche non derivano soltanto dalle risorse investite: vi sono altri problemi strutturali. Secondo Carlo Dell’Aringa, il nostro sistema di governance, basato sul dualismo stato/regioni, è inefficiente e pecca di scarsa interazione. Aumentare la dotazione finanziaria dei centri, in conclusione, può rivelarsi non del tutto efficace se non si procede a una ridefinizione della governance in un’ottica più centralizzata. Ma serve anche altro, ad esempio, la creazione di un sistema informatico unico.
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Claudio Martinelli
cari ricercatori, le indagini statistiche non servono a nulla se volete comprendere i problemi dei centri per l’impiego. Dovete entrarci dentro e fare ricerche qualitative, interviste aperte, visionare gli elefantiaci sistemi informativi e le procedure burocratiche implementate, che mortificano la professionalita’ degli operatori
Patty
Ma quali problemi, non fanno più un tubo.
Se ti chiamavano in passato era per raccomandazione.
Una volta era migliore ora non fanno neanche più l’aggiornamento dell’iscrizione.
Sono solo sanguisughe che scaldano una sedia e usano i soldi dei contribuenti.
Christian Biagini Orientatore Cpi
L”articolo omette le conclusioni delle indagini citate, che, a parer mio si discostano dal senso dato al contributo:
“Il nostro paese si segnala negativamente, in quanto, contrariamente a quanto suggerito dalla UE, ha ridotto nella crisi il supporto agli SPI, sia in termini di risorse finanziarie che umane. L’unica, peraltro magra consolazione, è che il sistema degli SPI italiano, nonostante il de-finaziamento e la crisi, sembra aver tenuto. Nonostante ciò, ancora una volta, il dibattito, almeno quello sui giornali, è stato “deviato” sulla antica e stantia contrapposizione pubblico/privato: diversi interventi tendono alla delegittimazione generalizzata del servizio pubblico, senza cogliere che il problema centrale è dato, come detto, dalla complessiva gracilità del sistema italiano dei servizi per l’impiego: la “debolezza” del pubblico non va contrapposta ad una presunta “forza” del privato; in realtà essa si somma allo scarso grado di penetrazione organizzativa del privato. il nostro paese avrebbe piuttosto bisogno di uno sforzo consistente nella direzione di potenziare i servizi offerti. A questo fine, va mutata la impostazione punitiva nei confronti dei Centri per l’impiego, aumentando il numero degli
operatori, adeguando la qualità e quantità dei servizi offerti. La giusta enfasi posta sul miglioramento dell’efficienza delle strutture dedicate al collocamento, non deve far dimenticare che allo stato attuale l’inserimento nel mercato del lavoro non passa attraverso i canali formali. In tal senso, se effettivamente si intende affrontare il tema del matching nel mercato del lavoro in modo non ideologico, è fondamentale una attenta riflessione su come operare un cambiamento paradigmatico della cultura imprenditoriale che si traduca nel maggior ricorso ai canali formali per soddisfare la domanda di lavoro.”
Tiziano Barone
Nel sistema italiano i principali erogatori pubblici di politiche attive per il lavoro sono i centri per l’impiego (Cpi).
Non è vero. Le politiche attive sono di competenza delle regioni che le finanziano principalmente con i fondi europei.