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Lavoro: l’Italia ritorna in mezzo al guado

La sentenza della Corte costituzionale sulla nuova disciplina dei licenziamenti, pur non spostando i limiti minimo e massimo dell’indennizzo giudiziale, ne aumenta l’imprevedibilità. E contribuisce con il decreto dignità a ridare un carattere peculiare di volatilità alla normativa in materia.

Cosa dice la sentenza della Corte costituzionale

Con la sentenza decisa il 26 settembre scorso a maggioranza – un solo voto di margine e un membro assente per missione all’estero – la Corte costituzionale ha corretto l’articolo 3 del decreto legislativo n. 23/2015, cioè la norma, applicabile soltanto ai rapporti costituiti dopo il 6 marzo 2015, che stabilisce l’indennizzo dovuto alla persona licenziata, nel caso in cui i motivi economici o disciplinari addotti dall’imprenditore siano ritenuti dal giudice non sufficienti (qui una scheda tecnica). La norma del 2015, come modificata questa estate dal decreto legge n. 87/2018 (cosiddetto “decreto dignità”), prevedeva un indennizzo giudiziale da un minimo di sei a un massimo di trentasei mensilità dell’ultima retribuzione, secondo una progressione legata soltanto all’anzianità di servizio in azienda. La correzione recata dalla sentenza della Consulta consiste in questo: fermi restando i limiti minimo e massimo, il giudice potrà determinare l’indennità tenendo conto non solo della durata del rapporto, ma anche di altre circostanze, come il carico di famiglia, le condizioni del mercato del lavoro locale ed eventualmente il comportamento tenuto dalle parti nel corso del rapporto e durante il giudizio.

Un effetto facilmente prevedibile della sentenza è l’aumento dell’incertezza circa l’entità dell’indennizzo deciso dal giudice, con conseguente probabile aumento del contenzioso giudiziale, che dal 2012 si era fortemente ridotto. Un altro effetto facilmente prevedibile è il disincentivo alle assunzioni a tempo indeterminato: la sentenza, infatti, avvantaggia più di tutti i lavoratori con anzianità minima, per i quali la protezione contro il licenziamento può aumentare notevolmente di peso fino a moltiplicarsi per sei; mentre non ne avranno vantaggio i lavoratori con anzianità di servizio elevata (per ora solo pochissimi casi di anzianità convenzionale, poiché la nuova norma si applica soltanto ai rapporti costituiti dal 7 marzo 2015), il cui indennizzo resterà predeterminato nella misura massima prevista dalla legge. La Corte ha infatti respinto la censura mossa dal Tribunale di Roma alla parte della legge nella quale si stabiliscono un minimo e un massimo dell’indennizzo dovuto: il giudice dovrà in ogni caso rispettare questi limiti.

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La Corte, dunque, non mette formalmente in discussione la svolta compiuta in due tempi dalla legislazione italiana sulla disciplina dei licenziamenti con la legge Fornero del 2012 e il Jobs act del 2015, nel senso del passaggio da un regime fondato su di una property rule, cioè sulla sanzione della reintegrazione, a un regime fondato su di una liability rule, cioè su un indennizzo di entità predeterminata nel minimo e nel massimo. Difficilmente la Corte avrebbe potuto farlo senza entrare in contraddizione con la propria sentenza precedente n. 46 del 2000, con la quale – dando il via libera alla celebrazione del referendum di iniziativa radicale per l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – aveva affermato la piena libertà di scelta del legislatore ordinario, in questa materia, tra l’apparato sanzionatorio basato sulla reintegrazione e quello basato sull’indennizzo. Per questo aspetto fondamentale l’impianto del Jobs act resta dunque intatto. E poiché è prevedibile che la maggior parte dei giudici continui ad assumere l’anzianità di servizio del lavoratore come parametro principale per la determinazione dell’indennizzo tra il minimo delle sei mensilità e il massimo delle trentasei, l’impatto pratico immediato della sentenza potrebbe non essere dirompente.

Incertezza sui costi del licenziamento

Cionondimeno la sentenza, che arriva a un mese soltanto dall’aumento dei limiti degli indennizzi disposto con il decreto legge n. 87/2018, produce l’effetto di una forte sottolineatura ulteriore del carattere di volatilità della disciplina di questa materia. E di un azzeramento del messaggio che le riforme del 2012 e del 2015 avevano voluto inviare agli operatori economici di tutto il mondo: quello secondo cui il nostro ordinamento del lavoro non costituiva più una anomalia, si stava armonizzando con quelli dei maggiori partner europei, stava semplificando una legislazione troppo complicata, restringendo gli spazi troppo ampi lasciati in precedenza al contenzioso giudiziale, riducendo l’alea abnorme circa l’esito delle controversie.

Una delle informazioni più importanti che gli investitori chiedono prima di scegliere un paese per dislocarvi un proprio piano industriale è costituito dal severance cost, cioè dal costo che l’ordinamento imporrà loro per chiudere i rapporti di lavoro se ciò si renderà necessario. Con la riforma del 2012-2015 l’Italia si era posta in grado di dare alla domanda una risposta analoga per entità e precisione a quella degli altri maggiori ordinamenti nazionali europei. Ora, con il decreto legge n. 87/2018 il severance cost italiano ha subito un brusco aumento; la sentenza della Consulta, che segue a ruota, dà un colpo ulteriore all’affidamento degli operatori sulla stabilità della normativa che regola la materia e torna a far dilatare l’alea circa l’esito dei giudizi.

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In uno studio di vent’anni or sono intitolato In mezzo al guado (Crossing the River: a comparative Perspective on Italian Employment Dynamics, in Economic Policy, 1995), Giuseppe Bertola e Andrea Ichino mettevano in guardia contro il rischio che, nel passaggio da un vecchio regime di protezione forte della stabilità del lavoro a un regime più evoluto fondato sulla protezione e sostegno delle persone, il paese si fermasse a metà del guado, finendo col tenersi tutti i difetti del vecchio sistema insieme ai costi della riforma, senza goderne i benefici. Sembra sia precisamente quanto sta accadendo in Italia, sotto la spinta convergente del governo e della Corte costituzionale. Fermarsi in mezzo al guado è la cosa peggiore che possiamo fare.

Figura 1

Fonte: Nota elaborata da Filippo Teoldi per la Presidenza del Consiglio

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10 commenti

  1. Claudio Resentini

    Le aziende che si comportano correttamente con i propri lavoratori non hanno nulla da temere dalla giustizia, non crede, professore? Quelle invece che vogliono “investire” (si fa per dire) dove il lavoro non costa nulla e i lavoratori sono ricattabili forse è meglio che se ne stiamo a casa propria, no? Forse è meglio attirare soprattutto imprese che siano in grado di dare lavoro di qualità, tutelato e con prospettive di carriera ai giovani italiani, formati e preparati, che sono costretti ad andare all’estero, non crede?

  2. Henri Schmit

    Si, il ‘fermo restando il limite massimo dell’indennità’ toglie la necessaria coerenza nonché equità alla sentenza. Diminuisce inoltre la tanto benefica quanto rara certezza del diritto voluta dal legislatore. Ci vuole tanta equità in più per giustificare una perdita di semplicità (di tempo e di soldi). Un sopo dubbio rimane: ma non si dovrebbe distinguere fra licenziamento disciplinare e licenziamento per motivi economici, garantire certezza nel secondo caso, apprezzamento giurisdizionale nel primo? O capisco male io?

  3. Massimiliano Sabatelli

    Egr. Prof. Ichino. La nota della Cassazione (non la sentenza, che in questo caso più che mai andrebbe attesa e letta con cura), a mio modestissimo avviso non cassa l’esistenza di un criterio oggettivo in se ma che questo si riduca all’anzianità di servizio. Se ne dovrebbe evincere che, qualora il legislatore trovasse un criterio di calcolo oggettivo che tenga nel dovuto conto tutti gli aspetti meritevoli di considerazione, questo potrebbe trovare applicazione senza incorrere nell’incostituzionalità. Dall’altra parte, ma probabilmente il mio è un argomento fallace, la Corte avrebbe ritenuto illegittima la norma anche se avesse previsto cento mensilità per ogni mese lavorato. Ergo è il valore della mensilità a ledere il diritto del lavoratore. La conclusione sarebbe che due persone che fanno lo stesso lavoro con le stesse responsabilità avrebbero diritto a trattamenti economici differenti in ragione di differenti situazione extralavorative. Qual è la sua opinione in merito?
    Grazie

  4. Federico Grillo Pasquarelli

    Il prof. Ichino dimostra scarso rispetto per la Corte Costituzionale: come fa a sapere che la sentenza è stata decisa “a maggioranza”, con “un solo voto di margine”? Esiste il segreto della camera di consiglio! E, comunque, è irrilevante che una sentenza sia stata deliberata a maggioranza o all’unanimità: le decisioni di un giudice collegiale sono del collegio, non della maggioranza.
    Inoltre, il prof. Ichino dimostra insofferenza per la Costituzione: non è la Corte Costituzionale che, arbitrariamente, ha restituito al Giudice la discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo, tra il minimo e il massimo stabiliti dalla legge, ma sono gli artt. 3, 4 e 35 Cost. che vietano al legislatore di determinare in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, e la Corte si è limitata a dichiarare illegittima la norma di legge in contrasto con la Cost..
    Con buona pace degli “operatori economici di tutto il mondo” le cui esigenze, secondo il prof. Ichino, dovrebbero prevalere sulle norme della Costituzione.

  5. Michele

    Il jobact aveva come scopo l’aumento dei contratti a tempo indeterminato. È stato un completo fallimento. Buttati 12 mld, trasformati in un regalo alle imprese. Ora questa sentenza della Corte Costituzionale cancella anche l’ingiusto e minimo indennizzo forfettario in caso di licenziamento illegittimo. Era ora. In concreto cambierà ben poco perché di casi applicabili ce ne sono ben pochi. È però un segnale insieme con il Decreto Dignità di un cambiamento importante: si inverte un trend di continua precarizzazione del lavoro che continua da 25 anni e che non ha portato l’aumemento di produttività atteso da economisti non obiettivi. Molto deve ancora essere fatto: dalla reintroduzione dell’art 18 alla abolizione di tanti contratti di intermediazione di lavoro, reddito di cittadinanza (= indennità di disoccupazione generalizzata come in tanti paese) etc Ma è un inizio! Avanti così!

    • bob

      aumentare i posti di lavoro non si fa con i decreti si fa con progetti: Se solo si pagasse una contribuzione in busta paga di 500 euro al mese e non di 1400 tantissime piccole e medie aziende assumerebbero persone. Se paghi una assicurazione privata 500 euro mensili hai una signora rendita. Con 1400 mensili di contributi lo Stato ti da una pensione sociale di 600 euro dopo 40 anni

  6. Michele

    Mondo bizzarro. Se a un concessionario autostradale viene revocata la concessione per manifeste gravi inadempienze, le “buone regole” prevedono che il concessionario venga indennizzato per tutti i mancati profitti fino al termine della concessione, salvo una modesta penale. Invece se un lavoratore viene licenziato in modo ILLEGITTIMO, le “buone regole” prevedono che si debba accontentare di qualche mese di indennizzo. Solo due esempi estremi del set di “buone regole” che vengono spacciate come moderne, favoreli alla crescita, alla creazione di ricchezza etc. (di pochi ovviamente, ma questo aspetto di solito viene omesso). Con queste “buone regole” vi meraviglia se una quota crescente di cittadini vota il cambiamento, qualunque esso sia? Vi meraviglia se il populismo impazza? Giustamente non bisogna fermarsi in mezzo al guado nella regolamentazione del lavoro. Bisogna proprio tornare indietro.

  7. Marcomassimo

    Come insegnavano gli illuministi, le leggi devono essere chiare, più semplici e meno discrezionali possibili; inutile dire che la nostra cultura giuridica è quella del barocco, non quelle della semplicità; del resto se abbiamo il più alto numero di avvocati al mondo, dovremo pure dargli sostentamento in qualche modo ed il cavillo è il metodo più praticato; detto questo, se la disoccupazione è alta in un territorio come lo è Italia, i numeri non sono una opinione e recuperare un lavoro perso in mezza età è molto difficile ; non ci sono giudici o leggi che tengano.

  8. micheledisaverio

    Se un investitore estero muove in Italia chiedendosi quanto costa licenziare e delocalizzare, parte col piede sbagliato.

    non è questo il tipo di occupazione e di investimenti che interessano il nostro Paese e nemmeno che merita finanziamenti a fondo perduto, agevolazioni fiscali e simili.

    Con ragionevole certezza si può affermare che gli switching cost non siano il principale fattore che induce gli investitori a portare altrove la creazione di benessere.
    il costo del lavoro in rapporto al costo pieno industriale dei prodotti quanto incide?

    Quanto costano petrolio, energia, tariffe autostradali? Quali sono i tempi di percorrenza medi che collegano i centri italiani su gomma e su ferrovia? sono decollate le cosidette “autostrade del mare”?

    qual è la velocità media dei collegamenti Internet e lo sviluppo di una rete a banda larga di nuova generazione? La digitalizzazione della PA?

    Per non parlare di credito, banche, tasse.

    Il “costo affondato” di qualsiasi alternativa di investimento è alto in termini di infrastrutture e credito.

  9. Maurizio Angelini

    Intatnto ripetiamo fino alla noia che si tratta del riconoscimento, fino al terzo grado di giudizio, della non legittimità di un licenziamento. Un datore di lavoro serio, italiano o straniero, si legge o si fa leggere un pò di giurisprudenza e verrà a sapere in anticipo quali sono i casi più frequenti di licenziamenti che vengono dichiarati illegittimi. Quanto alla somma da risarcire credo che dipeda da tante varabili( tasso di illeggittimità dell’ atto, situazione del mercato del lavoro nella zona in cui avviene il licenziamente ad es). Essere licenziati illegittimamemte è sempre un dramma ,a Taranto o Iglesias ancora di più.

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