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Più donne nei Cda, ma per le lavoratrici nulla è cambiato

Sono sempre poche le donne al Forum di Davos: quest’anno solo il 22 per cento. Un riflesso della loro assenza dalle stanze dei bottoni. In Italia i progressi garantiti dalle quote di genere nei Cda si vedono. Ma non sembrano estendersi al potere negoziale delle donne in azienda. Almeno per il momento.

Un episodio rivelatore

Le personalità di spicco della politica e dell’economia mondiale sono riunite dal 22 al 25 gennaio a Davos, per il consueto appuntamento annuale del World Economic Forum. Anche quest’anno la percentuale di donne presenti al forum, intorno al 22 per cento, è inferiore a quella degli uomini, benché in leggero aumento rispetto al passato. Possiamo quindi scusare l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, se ha creduto di dover stringere la mano all’uomo, invece che alla donna, mentre gli stavano presentando il vicepresidente di Mastercard. Ann Cairns ricopre la carica da aprile dello scorso anno e, probabilmente, avrà già dovuto assistere a una gaffe del genere. D’altronde, le donne che occupano posizioni apicali – sia in ambito economico che in ambito politico – sono decisamente poche e Biden avrà pensato che il corpulento marito della signora Cairns avesse il physique du role più adatto per ricoprire un ruolo di vertice rispetto alla minuta moglie.

E in Italia? La situazione è decisamente migliore rispetto al passato, soprattutto per merito della legge Golfo-Mosca del 2011 che prescrive una rappresentanza bilanciata di ambo i generi nei consigli di amministrazione delle società quotate e delle partecipate. In particolare, a partire dal primo rinnovo del Cda successivo ad agosto 2012, la rappresentanza delle donne deve essere pari ad almeno un quinto dei membri del board, da aumentare a un terzo per i rinnovi successivi al primo.

La legge ha avuto un effetto ben visibile sulla percentuale di donne nei Cda, ma molto meno sulla loro nomina ad amministratrici delegate o presidenti. Nella figura 1 riportiamo l’evoluzione della percentuale di donne che siedono nei consigli di amministrazione e di quelle che ricoprono la carica di ad, di presidente e di presidente non onorario, nelle società quotate soggette alla supervisione Consob. Se si registra un innalzamento significativo della percentuale di donne nei Cda, l’effetto sulle altre cariche è, benché di segno positivo, ancora piuttosto marginale.

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Figura 1 – Percentuale donne nei consigli di amministrazione e nei ruoli di direzione delle società quotate

Per le donne non è cambiato niente?

L’incremento delle donne nelle posizioni apicali non ha tuttavia portato miglioramenti visibili nel posizionamento dell’Italia nel Global Gender Gap Report, pubblicato dal World Economic Forum a fine 2018. Sebbene l’Italia abbia guadagnato dodici posizioni (dall’82° al 70° posto) nella classifica generale – che tiene conto di partecipazione e opportunità economiche, livello di istruzione, salute e rappresentanza politica – il risultato nel mercato del lavoro è rimasto immutato e vede l’Italia collocarsi al 118° posto su 149 paesi. In particolare, il reddito stimato delle donne è pari a solo il 57 per cento di quello degli uomini, mentre la partecipazione femminile al mercato del lavoro è il 74 per cento di quella maschile. Secondo i dati dell’Ocse, la partecipazione femminile è pari al 55,9 per cento nel 2017, contro una media europea del 68 per cento (LFS by sex and age – indicators: Labour force participation rate).

Perché la maggiore presenza femminile ai vertici delle imprese è fondamentale, ma non basta per allontanarci dalla 118esima posizione? Perché la quota di donne interessate dalle posizioni di vertice è chiaramente molto piccola e occorrono effetti a cascata sulle lavoratrici. Di quali effetti parliamo? La maggiore presenza femminile nelle posizioni di vertice potrebbe, ad esempio, favorire la richiesta da parte delle lavoratrici di incrementi salariali o la loro attitudine a competere più aggressivamente per una promozione. Dall’altro lato, le donne al vertice potrebbero essere più consapevoli degli ostacoli al lavoro femminile e quindi essere più attive in azienda per cercare di rimuoverli. In entrambi i casi, il cambio nella composizione di genere dei vertici aziendali dovrebbe accompagnarsi a una crescita nel potere negoziale delle lavoratrici nelle imprese interessate dalla riforma, che può tradursi in miglioramenti salariali o avanzamenti di carriera.

L’evidenza empirica preliminare per l’Italia sembra invece suggerire che l’impatto positivo non ci sia, in linea con gli studi effettuati sulla Norvegia. Oppure – più ottimisticamente – è plausibile che quell’effetto non si sia ancora manifestato.

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Oltre i Cara, ma verso l’integrazione

  1. Nicolò boggian

    La situazione non migliorerà se non si cambiano i modelli organizzativi, diminuendo la gerarchia, favorendo il remote working , cambiando i sistemi di valutazione della performance. In poche parole il modo di lavorare. Altrimenti si resta nella testimonianza

    • Emma Tondo

      Due punti che vanno verso la strada dell’acquisizione del coraggio
      – incoraggiare sin dall’infanzia il talento e le attitudini: sperimentare vie di integrazione extra-scolastica che non siano soltanto la danza per la bimba e il calcetto per il bimbo.
      – incoraggiare il cambio degli scenari informali aziendali: bowling, nuoto, musical, teatri. Fino a quando il terreno di confronto saranno la tribuna dello stadio, il calciomercato e la partita di golf, le decisioni avranno sempre lo stesso sfondo.

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