Nell’Unione Europea le donne hanno salari orari medi del 16 per cento inferiori a quelli degli uomini. E negli stipendi più alti il divario è ancora più marcato. Per superare la disparità di trattamento serve una presa di coscienza delle stesse imprese.
L’uguaglianza inizia con lo stipendio
In occasione dell’8 marzo, la Commissione europea ha rilasciato una dichiarazione in cui ribadisce che l’uguaglianza – inclusa quella tra uomini e donne – è un valore fondante dell’Unione. Sottolinea inoltre che, sebbene l’Europa sia tra i luoghi più egualitari e sicuri per ragazze e donne, i successi raggiunti non devono essere dati per scontati e gli ostacoli ancora da superare per raggiungere l’uguaglianza di genere non devono essere considerati accettabili. La disuguaglianza salariale di genere rimane una zona d’ombra nel processo di riduzione del gap tra uomini e donne sul mercato del lavoro, con le donne che nei paesi dell’Europa a 28 hanno salari orari medi del 16 per cento inferiori a quelli degli uomini.
Il report sull’uguaglianza tra uomini e donne appena pubblicato dalla Commissione discute le ragioni del differenziale, sottolineando come ne siano elementi importanti sia la segregazione orizzontale – le donne sono concentrate in settori con paghe contenute – sia quella verticale – le donne fanno più fatica a fare carriera.
E in Italia come vanno le cose? Cosa è successo nel tempo alla disuguaglianza salariale di genere? I progressi su questo fronte non sono mancati. Utilizzando i dati Inps sull’universo dei lavoratori italiani nel settore privato, resi disponibili grazie al programma di ricerca VisitInps, vediamo come, a partire dall’inizio degli anni Settanta, il differenziale di genere medio nei salari lordi annuali per i lavoratori full-time sia sceso dal 33 per cento del 1974 al 21 per cento del 2017. La convergenza tra i salari maschili e femminili è avvenuta a velocità diverse a seconda del periodo considerato. La figura 1 mostra come – guardando alla media (linea tratteggiata) – sia stata piuttosto lenta fino alla fine degli anni Novanta, per poi accelerare dagli anni Duemila e fermarsi nuovamente in quelli più recenti.
Analisi dei salari più alti
Cosa è successo invece nella porzione della distribuzione che comprende l’1 per cento più “ricco” dei percettori di reddito di lavoro? La quota di reddito detenuta dal 10, 5 o 1 per cento più ricco della popolazione è una misura del grado di disuguaglianza che caratterizza una società ed è al centro di numerosi lavori di ricerca, oggetto di sforzi notevoli in termini di raccolta di dati (da qui si può partire per farsi un’idea della conoscenza accumulata su questo tema negli ultimi anni), oltreché elemento di discussione nel dibattito politico.
Poco si sa però del “genere dei top earnings”, ossia quanti uomini e donne ci siano nella parte alta della distribuzione, e quali siano le differenze tra uomini e donne nei salari più elevati. La ragione principale è l’assenza di dati adeguati a studiare questi fenomeni. I dati Inps sono però un buon alleato. La linea continua nella figura 1 rappresenta l’evoluzione del differenziale salariale di genere al 99° percentile, ossia nella porzione della distribuzione che comprende l’1 per cento più “ricco” dei percettori di reddito da lavoro. Il valore è per tutto il periodo ben al di sopra del valore medio, offrendo evidenza sul fenomeno del “soffitto di cristallo”. Se nel 2017 le donne guadagnano mediamente il 20 per cento in meno degli uomini, tra i lavoratori con salari più elevati, la differenza sale al 30 per cento. Tuttavia, rispetto al differenziale alla media, il gap al top ha mostrato una riduzione più rapida, a partire dalla metà degli anni Ottanta in poi, passando da un valore massimo del 54 per cento nel 1986 a un minimo del 30 per cento nel 2017.
Figura 1 – Differenziale salariale di genere (%) nel tempo alla media e al 99° percentile
Cosa ha contribuito alla convergenza (incompleta) dei salari maschili e femminili? I fattori sono molteplici (qui si può leggere una rassegna esaustiva degli studi sulla dinamica del divario di genere nelle retribuzioni nei paesi industrializzati). L’aumento della presenza femminile nella parte alta della distribuzione dei redditi da lavoro è uno di questi fattori. La figura 2 mostra l’evoluzione della proporzione di donne nel 10, il 5 e l’1 per cento più ricco della distribuzione dei redditi di lavoro. Stiamo parlando di individui che dichiarano un reddito imponibile lordo da lavoro pari ad almeno 44 mila, 57 mila e 102 mila euro, rispettivamente. In tutti e tre i casi, la proporzione di donne è almeno raddoppiata rispetto al valore di partenza della serie storica nel 1974, con un aumento marcato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. La differenza tra le tre serie si è mantenuta stabile, con le donne che nel 2017 rappresentano il 21, il 19 e il 14 per cento, rispettivamente, del 10, 5 e 1 per cento più “ricco” dei lavoratori. L’accesso delle donne a posizioni più remunerative nel mercato del lavoro e l’aumento della loro presenza in quelle di vertice è sicuramente un elemento chiave per promuovere la riduzione dei differenziali salariali.
Figura 2 – Proporzione di donne al top 10%, 5% e 1% della distribuzione dei redditi da lavoro
Le politiche utili
Ma come sostenere, attraverso le politiche, la riduzione del gap? Un primo livello di intervento su cui si sono concentrati recentemente diversi paesi, tra cui l’Italia, è quello di richiedere alle imprese di monitorare i dati relativi alla forza lavoro, alle remunerazioni e alle iniziative di conciliazione vita-lavoro. In quest’ottica può essere inquadrato nel nostro paese il decreto legislativo 254 del 2016 sulla rendicontazione non finanziaria, indirizzato alle imprese con almeno 500 dipendenti. Le imprese sono tenute a riportare risultati attinenti alla gestione non finanziaria, tra cui le misure volte a favorire la parità di genere. Questo si traduce nella pubblicazione di statistiche, ad esempio, sulla distribuzione della forza lavoro per genere nelle varie categorie occupazionali e nei diversi livelli della gerarchia aziendale, sui livelli salariali di dipendenti maschi e femmine, sulla formazione, il turnover, le nuove assunzioni in ottica di genere. La decisione su quali statistiche pubblicare è lasciata alla libertà delle imprese coinvolte. Un provvedimento simile, sebbene più stringente in termini di requisiti, è stato adottato nel Regno Unito e nel 2019 le imprese britanniche dovranno pubblicare per il secondo anno consecutivo i loro dati sul gender pay gap. L’Islanda, che nel 2018 ha introdotto una legislazione che obbliga le grandi imprese a dimostrare che rispettano la regola della “stessa paga per lo stesso lavoro”, estenderà l’obbligo alle aziende di medie dimensioni. Nel complesso, queste misure hanno l’intento di disincentivare disparità nel trattamento riservato a uomini e donne all’interno dell’impresa attraverso una presa di consapevolezza delle imprese stesse della situazione corrente. Ed è sicuramente un buon intento, considerato che le aziende contribuiscono al differenziale salariale, come abbiamo documentato in precedenza. Sull’efficacia di tali misure solo il tempo potrà però fornirci elementi e dati utili a un’analisi più attenta. La speranza è che per le imprese non sia solo un segno di spunta sulla lista delle cose da fare.
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Claudio Della Ratta
Le letture delle rilevazioni ISTAT indicano che le tanto decantate differenze di stipendio tra generi a parità d’incarico, sono originate prevalentemente dagli straordinari (e indennità di trasferta) che il genere maschile riesce ad effettuare in eccesso rispetto al genere femminile.
Paradossalmente l’uomo ha la possibilità di conciliare lavoro/carriera e famiglia proprio grazie alla presenza femminile, che si fa ancora carico d’incombenze che dovrebbero essere equamente suddivise.
Quindi le donne guadagnano il 17% in meno degli uomini (e conseguentemente versano meno contributi per la propria pensione) perché sul posto di lavoro sono meno presenti degli uomini, ancora troppo sgravati dalle attività casalinghe di “cura della famiglia” nel senso più esteso del termine.
Non esiste (salvo casi particolari e censurabili) nessun divario retributivo di genere, ma semplicemente un diverso apporto al mondo del lavoro dipendente da parte delle donne, perché non viene riconosciuto né “monetizzato” il ruolo socio educativo delle donne.
Parliamo di questo dunque, parliamo di una diversa visione ed accettazione dei ruoli, da costruire e migliorare più velocemente nel tempo, ma non parliamo di differenze retributive (e pensionistiche) che sono invece, “aziendalmente parlando”, la corretta valorizzazione del tempo lavoro in azienda prestato.
Luca ba
Complimenti molto meglio il suo commento dell’articolo
Davide
Attenzione, non può dire queste cose. La narrazione prevede il maltrattamento, e non si può contestare coi fatti.
Aggiungo una postilla: cosa viene fatto fuori dall’azienda non c’entra con la retribuzione. Sono scelte personali.
Franco
“Non esiste (salvo casi particolari e censurabili) nessun divario retributivo di genere” beh bisogna dimostrarlo, se non è sono una dichiarazione tipo “io sono Napoleone”. Da Istat “Il differenziale retributivo delle donne rispetto agli uomini è negativo e pari al 12,2%. Lo svantaggio femminile aumenta al crescere delle retribuzioni orarie sia a livello territoriale che settoriale.” https://www.istat.it/it/archivio/194951 I dati statistici dicono il contrario e come viene accennato in questo articolo la disparità viene per esempio dalla segregazione orizzontale (le donne non accedono in alcuni settori economici più remunerative” ed ecc…