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Cosa è cambiato e cosa no nel mondo del lavoro*

Il decreto dignità voleva essere la “Waterloo del precariato”. Ma la precarietà non dipende solo dalle forme contrattuali. Il problema è l’economia debole. Mentre il sistema degli ammortizzatori è ancora limitato. E le politiche attive non incidono.

Il lavoro dopo il decreto dignità

Uno dei primi atti del governo Conte, insediatosi un anno fa, è stato una riforma delle regole del mercato del lavoro, come già era accaduto in passato con altri governi. Non sorprende che il tema lavoro rimanga al centro dell’agenda politica in un paese che continua ad avere un tasso di disoccupazione a doppia cifra, mentre il resto del mondo sviluppato parla di un “boom dei posti di lavoro” (si veda la copertina dell’Economist della scorsa settimana). Tuttavia, l’approccio sembra sempre limitarsi a qualche modifica normativa, spesso senza un disegno generale e senza una valutazione degli strumenti esistenti, nella speranza che “per decreto” venga creato non solo lavoro, ma lavoro di qualità.

È ancora presto per dare un giudizio serio dell’effetto del decreto dignità, che è arrivato in contemporanea a un rallentamento dell’economia italiana e globale. Infatti, questa misura ha avuto vari regimi transitori prima della sua piena entrata in vigore il 1° novembre 2018, a cui ha fatto seguito, con la legge di bilancio, una significativa liberalizzazione delle partita Iva. Tuttavia, se si guardano le tendenze di lungo periodo, senza rincorrere i dati dell’ultimo comunicato dell’Istat o dell’Inps, è possibile identificarne alcune generali.

La crescita dell’occupazione iniziata a fine 2013 ha cominciato a rallentare (o stabilizzarsi) nel terzo trimestre 2018, il primo dei due trimestri di crescita negativa registrati dall’Italia. I dati dei primi tre mesi del 2019 suggeriscono una ripresa dell’occupazione, che però andrà confermata nei prossimi mesi per poter parlare di ripresa vera e propria.

Figura 1

È vero che il numero di occupati è aumentato significativamente negli ultimi anni tornando ai livelli pre-crisi, ma non è stato così per le ore di lavoro che, seppur in crescita, rimangono significativamente al di sotto di quelle registrate prima della crisi. Il tempo parziale involontario è raddoppiato nei dieci anni passati dall’inizio della crisi. In parte, questo riflette la debolezza della struttura economica italiana ma, guardando l’esperienza di altri paesi, riflette anche cambiamenti strutturali, come un aumento dei servizi (dove, più che nella manifattura, i lavori possono essere divisi in brevi fasce orarie) e un aumento della volatilità della domanda.

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Figura 2

Tempo indeterminato e tempo determinato

Tra i lavoratori dipendenti, dopo il boom del tempo indeterminato legato agli incentivi del 2015, il numero di occupati a termine aveva cominciato a risalire in modo consistente nel 2016. I dati Istat mostrano che il trend si è fermato nell’estate 2018, in occasione del decreto dignità che ha messo paletti più stringenti all’uso ripetuto dei contratti a termine (oltre all’aumento dei costi di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato). Peraltro, il numero dei lavoratori a tempo indeterminato ha proseguito nella tendenza al ribasso cominciata nel 2017, con alcuni segnali di ripresa tra gennaio e marzo 2019.

Figura 3

Guardando i dati dell’Inps, che permettono un’analisi più granulare, la percentuale di assunti con un contratto a tempo indeterminato sul totale dei nuovi contratti, ha ricominciato ad aumentare a partire da giugno 2018, mese del decreto dignità. In parte, si tratta di un effetto stagionale (tutti gli anni, la percentuale aumenta intorno al mese di giugno), ma il ritmo è più elevato rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. Se poi si scompone tra nuovi contratti e trasformazioni di contratti a tempo determinato, si nota che negli ultimi mesi sono quest’ultime ad aver giocato un ruolo più forte che in passato. Non si tratta quindi di nuovi assunti, ma di vecchi contratti a tempo determinato convertiti a tempo indeterminato.

Figura 4

All’aumento dell’incidenza del tempo indeterminato nei primi tre mesi del 2019 ha fatto da contraltare una crescita significativa delle partite Iva, trainate in particolare dalle persone fisiche in regime forfettario, in aumento del 40 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’incremento segue l’introduzione della cosiddetta “flat tax” per gli autonomi nella legge di bilancio 2019 e potrebbe nascondere un ritorno di “falsi autonomi” che la riforma Fornero e il Jobs act avevano cercato di contrastare.

In conclusione, nel primo anno di governo gialloverde si è registrato un rallentamento della crescita di occupati, un aumento dell’incidenza del tempo indeterminato sul totale dei nuovi contratti e, negli ultimi mesi, un ritorno delle partite Iva. Senza analisi statistiche non è possibile dare giudizi definitivi su cause ed effetti. Tuttavia, al momento, la “Waterloo del precariato” annunciata con il decreto dignità non sembra ancora avvenuta. Anche perché, più che delle forme contrattuali in sé, il precariato è conseguenza di un’economia anemica, in cui i posti di lavoro sono a rischio anche per chi ha contratti a tempo indeterminato, e di un sistema di ammortizzatori sociali ancora limitato in termini di copertura (almeno rispetto ad altri paesi Ocse) e di una rete di politiche attive tuttora deficitaria.

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  1. Michele

    Il decreto dignità deve essere solo l’inizio di una inversione di tendenza rispetto a un trend oltre ventennale di precarizzazione del lavoro, riduzione dei diritti, riduzione delle retribuzioni. Oltre 25 anni di tali politiche – portate avanti da governi di destra e sinistra – non hanno portato i miracolistici risultati promessi. Anzi. La produttività è stagnante, il GDP procapite è diminuito, gli investimenti privati sono ancora del 20% inferiori a quelli del 2007, l’economia italiana non ha mai recuperato i livelli ante 2008, unica tra le grandi economie OECD. Gli effetti di oltre 25 anni di politiche sbagliate non si cancellano in 12 o 24 mesi.

  2. D’accordissimo che non si cambia occupazione (e qualità dell’occupazione) attraverso forme contrattuali – una cosa che dovremmo ricordare sempre, sia a quelli che (ri-)regolano che a quelli che de-regolano il mercato del lavoro

  3. Tommaso

    Purtroppo si continua, come sempre, a ragionare sul breve-brevissimo periodo.
    Non ci si può più esimere dal valutare la “quantità” dei lavoratori separata dalla “qualità”.
    L’unica via d’uscita è la scuola. L’istruzione.
    Credo che un serio e molto drastico programma di riforma del sistema scolastico sia l’unico debito extra che la UE potrebbe digerire.
    Non si può pensare a operai generici quando a poche centinaia di km dai nostri confini c’è chi fa le stesse cose a metà del costo.
    L’industria labour intensive sta morendo.
    Per favore portate avanti la battaglia dell’istruzione. È l’unica soluzione perseguibile a lungo termine.

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