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Istruzione non fa rima con devoluzione

L’istruzione è la voce più rilevante nel processo di federalismo differenziato. Toglierla dalla trattativa ridimensionerebbe il nodo delle risorse finanziarie e consentirebbe di discutere delle opportunità offerte dalla devoluzione di altre materie.

Il ruolo dello stato nelle regioni

La vittoria messa a segno della Lega alle elezioni europee ha riportato il tema dell’autonomia differenziata al centro del dibattito politico. Diversi studi hanno tentato di stimarne il costo, ossia il valore delle materie (o funzioni) che le regioni hanno richiesto allo stato centrale.

Tra le materie cosiddette “concorrenti”, quelle che ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione possono essere oggetto di negoziazione tra stato e regioni nell’ambito dell’autonoma rafforzata, rientra l’istruzione, che genererebbe un trasferimento di risorse significativo. Si tratta di cifre dell’ordine di 12-13 miliardi di euro che transiterebbero dal bilancio dello stato a quello delle regioni Lombardia (5,6 miliardi), Veneto (2,9 miliardi) e Emilia-Romagna (2,8 miliardi).

Uno sguardo alla figura 1 mostra la spesa regionalizzata, ossia la spesa effettuata dallo stato centrale nelle regioni per le funzioni più rilevanti. L’istruzione è la più alta, pari a quasi 40 miliardi. Nel caso in cui tutte le regioni a statuto ordinario ottenessero l’istruzione, quella spesa transiterebbe alle regioni.

Figura 1 – La spesa regionalizzata dello stato, in miliardi euro

Fonte: Ragioneria generale dello stato

L’Italia diventerebbe così un paese sempre più simile a quelli federali. Come si vede dalla figura 2, infatti, nei paesi federali (Austria e Germania) l’istruzione viene finanziata dagli stati o dalle regioni (come i länder tedeschi). Lo stesso accade negli Stati Uniti.

Figura 2 – Finanziamento dell’istruzione tra governo centrale e governi locali, percentuale di finanziamento per livello di governo

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Oltre il criterio della mera efficienza

In Italia, la motivazione principale, spesso implicita, delle richieste avanzate dalle regioni è quella dell’efficienza: poiché sono più efficienti a gestire altri servizi pubblici, come la sanità, anche nel caso dell’istruzione la devoluzione ne migliorerebbe l’efficienza (migliori servizi a parità di costo, o stessi servizi a costi minori).

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Le numerose obiezioni già sollevate contro la devoluzione dell’istruzione si incentrano sulla storia, la tradizione e l’identità dello stato unitario. Qui si introducono tre argomenti economici, secondo i quali l’istruzione è un servizio pubblico particolare, che richiede altri criteri oltre a quello dell’efficienza per giustificarne la devoluzione.

Il primo punto riguarda il fatto che la spesa in istruzione è una delle principali fonti di crescita economica di lungo periodo. Cosa accadrebbe se l’Italia volesse fare un investimento massiccio in istruzione come strumento di politica macroeconomica, nel caso di completa devoluzione della materia alle regioni?

Il secondo riguarda i cosiddetti problemi di esternalità, che sorgono quando i benefici di un servizio pubblico si estendono anche al di fuori della giurisdizione in cui sono localizzati. Per le regioni del Sud, Gaetano Vecchione (2017) ha stimato in circa 2 miliardi l’anno la perdita in termini di spesa pubblica regionale investita in istruzione e non recuperata a causa della migrazione verso il Nord. In un contesto di autonomia finanziaria i cittadini di queste regioni finanzierebbero tramite il loro gettito fiscale un servizio pubblico i cui benefici sono, in parte, goduti altrove. Questi effetti possono disincentivare le regioni dall’investire in istruzione, con conseguenze negative per l’intero paese.

Il terzo punto riguarda le implicazioni sulla disuguaglianza. Più di quaranta anni fa, Joseph Stiglitz si chiedeva: può uno stato federale proibire alle comunità locali di aumentare la spesa in istruzione, al fine di mantenere un livello uniforme del servizio? Nel contesto attuale, la domanda diventa la seguente: i livelli essenziali delle prestazioni nell’istruzione sono minimi da garantire a tutti i cittadini e, pertanto, è consentito alle regioni di incrementare tali livelli con risorse proprie, oppure tali livelli sono allo stesso tempo dei minimi e dei massimi, imponendo di fatto un medesimo livello uniforme di istruzione in tutto il territorio nazionale? Nel caso della sanità si potrebbe ragionevolmente sostenere la prima ipotesi, in virtù del fatto che ospedali o cliniche specializzate in patologie particolari nelle regioni più avanzate sono un bene pubblico di cui fruisce l’intera collettività. Ma nel caso dell’istruzione, una scuola migliore perché situata in una regione più ricca è un bene pubblico locale a esclusivo beneficio dei cittadini della regione.

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Come scriveva Richard Musgrave, “l’efficienza nella fornitura di beni pubblici è importante, ma un modello di federalismo che non considera gli effetti sulla diseguaglianza è incompleto”. La devoluzione completa dell’istruzione alle regioni ha profonde implicazioni che vanno ben oltre le mere considerazioni di efficienza. Lo stato centrale ha solide ragioni per trattenerla e devolvere solo alcune funzioni specifiche. Tutto ciò a patto che si impegni credibilmente a uniformare il livello dell’istruzione verso l’alto. Una uniformità di scarsa qualità imposta dal centro avrebbe poche possibilità di convivere in un’Italia sempre più regionalizzata. Togliere dal piatto l’istruzione ridimensionerebbe il problema delle risorse finanziarie a poca cosa e si potrebbe discutere nel merito delle opportunità del federalismo differenziato.

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Feldstein: ecco chi ha insegnato agli economisti a fare rete

  1. Claudio Martinelli

    I miei figli hanno frequentato l’intero ciclo scolastico dalle elementari alle superiori. Ho potuto rilevare che la qualita’ dell’intero percorso formativo e’ veramente bassa. Le cause a mio avviso: 1) la scuola e’ un’organizzazione con quasi due milioni di dipendenti. Ingestibile a mio avviso 2) le procedure di reclutamento degli insegnanti sono prevalentemente di carattere burocratico.Infatti 3) molti insegnanti dei miei figli erano di c.d terza classe, non avevano fatto un concorso e 4) cambiavano a settembre e novembre di ogni anno scolastico. Inoltre 5) il dirigente scolastico e’ giuridicamente “datore di lavoro”, ma non ha facolta’ di scelta dei suoi collaboratori/insegnanti, i quali 6) se titolari, in pochi casi, di cattedra appena possibile si trasferivano in altre regioni. Nel frattempo, ha Bologna l’Unione Industriali ha inaigurato il proprio costosissimo liceo privato. La disuguaglianza di opportumita’ formative aumenta, questo e’ il futuro. Cosa puo’ peggiorare la regionalizzazione della scuola? Peggio di cosi….

  2. Henri Schmit

    Analisi interessante su uno dei temi più importanti. La sfida è doppia, di procedura (competenza) e di contenuto (come organizzare l’istruzione pubblica), i due aspetti NON essendo necessariamente correlati! Interessante anche il commento di Claudio Martinelli nonostante la conclusione disfattista inaccettabile: … peggio di così…. Sotto il profilo centro-regioni, d’accordo con l’autore, sceglierei per assurdo uno dei modelli più vicini a quello italiano attuale, quello olandese o quello francese, di sicuro più appropriati per riformare quello italiano, a patto che quelli che riformano ne siano capaci. La Repubblica francese è stata realizzata fra fine 800 e inizio 900 sui banchi della scuola pubblica. Apparentemente in Italia i 50 anni di scuola pubblica (ciò fino all’arrivo delle riforme Berlusconi e Lega che hanno sospeso il paradigma dominante) non sono bastate.

  3. Maria Rosa Di Lallo

    Non so se ho ben compreso la conclusione dell’articolo.Si tratterebbe di eliminare il comparto Istruzione dalle materie oggetto di autonomia differenziata e di “devolvere solo alcune funzioni specifiche”: quali? E, poi, sembra politicamente praticabile tale ipotesi?

  4. Claudio

    La frase finale era piu’ che altro uno sfogo. In verita’, credo che le cose possano migliorare affidando alle regioni la competenza esclusiva sulla materia.

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