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Pechino fa i conti con l’incertezza

L’economia cinese rallenta nel 2019, come era nelle previsioni del governo. La crescita acquista un ritmo più sostenibile, riducendo la probabilità di un crollo repentino. Ma neanche le autorità cinesi possono controllare i fattori esterni più insidiosi.

Il rallentamento controllato

Il comunicato dell’ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista cinese, riunitosi il 30 luglio per la valutazione periodica dell’andamento dell’economia nella prima metà dell’anno, ne conferma la solidità, insieme a quella dei fondamentali. Ma al di là dei toni edulcorati e vaghi del documento, i fatti sono inequivocabili. Il Pil del secondo trimestre 2019 ha chiuso in rialzo annuo del 6,2 per cento: è il dato peggiore negli ultimi 27 anni, però è perfettamente in linea con le aspettative in un contesto internazionale indebolito. D’altra parte, la Cina rallenta almeno dal 2014. “La pressione al ribasso sull’economia cinese continua ad aumentare, la crescita dei consumi sta rallentando e la crescita degli investimenti effettivi manca di slancio”: con queste parole, il primo ministro Li Keqiang annunciava a inizio anno che Pechino aveva abbassato il suo obiettivo di crescita economica del paese per il 2019, attribuendo il rallentamento a un “profondo cambiamento nell’ambiente esterno”, un chiaro riferimento alla guerra commerciale con gli Stati Uniti.

Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il Pil cinese è sceso dal 6,9 per cento nel 2017 al 6,6 per cento nel 2018 e già dalla fine dell’anno si prevedeva un minimo per il 2019. A causa della divergenza tra le sue ambizioni internazionali e le sue effettive capacità interne, il governo cinese ora deve aumentare la competitività interna ed esterna del paese.

La guerra commerciale e altre cause

Certamente, l’economia cinese è influenzata dagli effetti di uno scenario commerciale molto deteriorato rispetto ai valori degli ultimi anni, a causa della guerra dei dazi con gli Stati Uniti.

I dati mostrano un rallentamento degli scambi: le esportazioni sono aumentate solo del 7,1 per cento nel 2018 e le importazioni del 12,9 per cento, rispetto al 7,9 e al 15,9 per cento nel 2017 (Cnn). Ma per il momento la guerra commerciale ha meno “colpa” di quanto si pensi, perché i suoi effetti reali devono ancora manifestarsi. Anzi negli ultimi mesi potrebbe aver paradossalmente prodotto risultati contrari. I dati sulla crescita degli Stati Uniti indicano che le aziende hanno importato di più per accumulare scorte in previsione di aumenti dei prezzi dovuti ai dazi doganali. È un effetto destinato a svanire presto. Nel frattempo, il rallentamento globale ridurrà anche le esportazioni verso altri mercati. In effetti, altri fattori stanno agendo e il calo degli scambi potrebbe non essere la causa principale, o la più preoccupante, del rallentamento della Cina.

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Nel 2018 l’economia cinese ha perso slancio, soprattutto a causa degli sforzi del governo per contenere gli elevati livelli di indebitamento delle imprese. Il rapporto tra attività e passività è diminuito per tutti – più per il pubblico che per le aziende private – e i prezzi delle azioni ne hanno pagato le conseguenze, mettendo in difficoltà le stesse imprese e bruciando i risparmi di molte famiglie. Il principale indice di borsa, lo Shenzhen Composite Index, ha perso il 33 per cento dall’inizio dell’anno, infettando anche le borse occidentali. Lo scorso dicembre l’enorme settore industriale cinese si è contratto per la prima volta in due anni e mezzo. È vero che i servizi sono andati molto meglio, ma resta da vedere come il settore, composto principalmente da società di software e servizi alle imprese, possa mantenere questo ritmo con una produzione industriale in calo.

In questo contesto, non si vede come gli investimenti, l’unica vera fonte di crescita negli ultimi 40 anni, possano rimanere stabili. Sia il finanziamento del credito che la raccolta di risorse in borsa sono più difficili che mai, quindi molte società private sono arrivate al punto di chiedere o accettare partecipazioni statali e, allo stesso tempo, molte aziende statali hanno accolto con favore il capitale privato. Ciò crea un sistema di partecipazioni pubblico-privato volto più a coprire i problemi di debito che a risolverli. Più partecipazioni statali nelle aziende spesso significano meno produttività e meno efficienza, i due punti di forza del settore della produzione privata nei trenta gloriosi anni (1980-2010). Vi è una massiccia ri-nazionalizzazione da parte dei governi locali di società precedentemente privatizzate, un fenomeno già presente tra il 1999 e il 2007, ma in aumento dal 2014, con conseguenze negative sulla redditività e sulla produttività del lavoro (è legato al riassorbimento di parte dei disoccupati). I dati a livello provinciale mostrano che una maggiore frequenza di ri-nazionalizzazione è associata a maggiori riduzioni del tasso di crescita della provincia.

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Tuttavia, i segnali più preoccupanti provengono dai dati di consumo. Sebbene il settore delle vendite al dettaglio e online rimanga vivace, gli acquisti di auto, tradizionalmente un indicatore del dinamismo della domanda, sono in netto calo. Secondo i dati di Oica (Organizzazione internazionale dei produttori di autoveicoli) e Caam (l’associazione dei costruttori di automobili in Cina), nel 2018 le immatricolazioni sono state 28,1 milioni, il 2,8 per cento in meno rispetto all’anno precedente. È il primo declino dal 1990 nel più grande mercato automobilistico del mondo, fonte di profitti per molti produttori cinesi e stranieri.

Le autorità cinesi si trovano ora a corto di soluzioni facili: negli ultimi decenni, quella preferita era il credito a basso costo, che oggi deve essere evitato. Le misure finora introdotte – riduzioni fiscali, tagli delle aliquote e nuove opere infrastrutturali finanziate dallo stato – sono volte a evitare il peggio, cioè una brusca frenata (hard landing) dell’economia. Che avrebbe effetti devastanti in tutto il mondo, dal momento che la Cina contribuisce oggi alla crescita del Pil mondiale per il 33 per cento (tre volte tanto gli Stati Uniti) e il suo Pil rappresenta il 27,2 per cento del totale mondiale – secondo Bloomberg, destinato a salire al 28,4 per cento nel 2023. Per ora l’eventualità della frenata brusca sembra essere scongiurata. In questo senso, anzi, il rallentamento dell’economia cinese non è una notizia così negativa come si potrebbe immaginare, perché è controllato. La crescita cinese sta prendendo un ritmo più sostenibile e ciò riduce la probabilità di hard landing.

Il governo cinese ha dimostrato di essere molto abile nella gestione dei fattori economici interni, pronto a intervenire con manovre a breve e a lungo termine, ma non può controllare i fattori esterni più insidiosi che al momento presentano un elevato grado di incertezza.

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Il Punto

  1. Paolo

    Segnalo un vizio di forma molto diffuso ma che ha l’effetto di alterare la percezione dei fatti del lettore medio. Sarebbe sempre corretto parlare, in questi casi, non di rallentamento (perché di rallentamento non si tratta), ma di diminuzione del tasso di crescita. Leconomia cinese continua a crescere, e non di poco (oltre il +6%), è la velocità con cui lo fa a “rallentare”, in fisica si parlerebbe di riduzione dell’accelerazione. Non credo sia una banale questione formale e come si affermassimo che un’automobile lanciata a 100 km/h dopo aver aumentato la sua velocità a 110 km/h successivamente la abbia ulteriormente incrementata a 115 km/h. Evidente che il secondo incremento è notevolmente inferiore al primo ma nessuno affermerebbe che quell’auto sta rallentando.

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