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Sui divari di genere un programma di buoni propositi

Il programma di governo M5s-Pd riporta in primo piano il tema delle disuguaglianze di genere, anche attraverso l’introduzione di una legge sulla parità uomo-donna nelle retribuzioni. Sono intenti positivi, purché non rimangano solo sulla carta.

I divari di genere nel programma di governo

Nel programma del nuovo governo Movimento 5 stelle-Partito democratico il contrasto alle disparità retributive di genere occupa una posizione prominente. Al punto 4 si trova infatti l’obiettivo di “introdurre una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni” e di “recepire le direttive europee sul congedo di paternità obbligatorio e sulla conciliazione tra lavoro e vita privata”.

Gli obiettivi sono apprezzabili e più adeguati rispetto al generico intento di “superare” la disparità retributiva inserito negli originari 20 punti presentati dal M5s nel primo giro di consultazioni. Il governo Conte-bis, pur contando al suo interno non più di un terzo di donne, è comunque tra quelli che registrano una maggiore presenza di ministre nella storia repubblicana: riuscirà a far fare passi avanti al nostro paese sul fronte dell’uguaglianza di genere?

Negli ultimi anni il Parlamento si è dotato di strumenti per la valutazione degli effetti di genere delle politiche pubbliche. Uno su tutti, il bilancio di genere, introdotto dalla legge 196/2009, che ha il preciso scopo di “valutare il diverso impatto delle politiche di bilancio su uomini e donne in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito”. La prima pubblicazione del bilancio di genere risale all’anno 2016 ed è oggi strumento utile a valutare non solo le voci di spesa del bilancio dello stato che possono avere effetti differenziati per genere, ma anche a fornire una fotografia aggiornata dei differenziali di genere nel mercato del lavoro, nell’istruzione e nella salute.

Il bilancio di genere per il 2018 pubblicato a fine agosto conferma che le differenze tra uomini e donne sono ancora sostanziali. Il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 49,5 per cento contro una media dell’Unione europea del 63,4 per cento. Il differenziale retributivo è in media pari al 5 per cento: sembra basso se confrontato a quello di altri paesi, ma è influenzato dalla scarsa partecipazione al mercato del lavoro delle donne con bassi livelli di istruzione. L’incidenza di lavoratori dipendenti con bassa paga (ossia inferiore ai due terzi della mediana) è di circa 4 punti percentuali superiore per le donne rispetto agli uomini. Permane, infine, il gap nella percentuale di donne e uomini che scelgono percorsi di laurea cosiddetti Stem (ossia nell’ambito delle scienze, statistica e matematica): circa il 60 per cento dei laureati in queste discipline sono uomini.

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Un compito difficile

Serve dunque una legge sulla parità retributiva? Il programma del nuovo governo ovviamente non fornisce dettagli su come sarà disegnata. Un recente intervento riconducibile all’obiettivo di promuovere la parità retributiva è contenuto nel decreto legislativo 254/2016 sulla cosiddetta rendicontazione non finanziaria, che obbliga le imprese con più di 500 addetti – con attivo superiore ai 20 milioni o ricavi superiori ai 40 milioni – a presentare una dichiarazione sulle politiche messe in atto in tema di diversità. Il provvedimento è vago su cosa si intenda per tali politiche e le imprese lo hanno interpretato in maniera autonoma: alcune hanno scelto di riportare i dati sulle retribuzioni di uomini e donne, altre di fornire informazione sulle tipologie di occupati per genere, senza dare dettagli sulle retribuzioni medie. Sarebbe utile partire da questa base e cercare di specificare e omogeneizzare le richieste di dati rivolte alle imprese, se possibile estendendo la platea coinvolta, anche se difficilmente questi obblighi di trasparenza possono essere efficacemente applicati al mondo delle piccole imprese, così ampio nel nostro paese. In questa direzione va, peraltro, il progetto di legge regionale presentato dal Pd in Lombardia, che punta in primo luogo alla pubblicazione – da parte delle imprese – di “aspetti inerenti le pari opportunità sul luogo di lavoro, inclusa la retribuzione”. L’idea alla base di simili disposizioni è che la pubblicazione di statistiche dettagliate sullo stato delle differenze retributive tra uomini e donne possa stimolare le imprese ad adottare politiche che favoriscano una riduzione del differenziale di genere.

Sugli effetti degli obblighi di comunicazione abbiamo esempi provenienti da altri paesi. Il Regno Unito ha varato nel 2016 una legge che impone alle imprese con più di 250 addetti di pubblicare le statistiche relative al divario retributivo tra dipendenti uomini e donne come, ad esempio, il differenziale di genere alla media e alla mediana sia nel salario che nei bonus e la proporzione di uomini e donne nei quartili della distribuzione dei salari. La pubblicazione è iniziata nell’aprile 2018 e le prime analisi – comunque descrittive e basate su un orizzonte decisamente troppo breve – tendono a mettere in luce l’inefficacia delle politiche di trasparenza. Tuttavia, altri esempi – da Danimarca e Svizzera – mostrano invece come tali disposizioni abbiano ridotto il differenziale di genere, benché il risultato sia determinato, almeno nel caso della Danimarca, dal rallentamento della crescita dei salari maschili più che da un’accelerazione di quelli femminili. Se focalizzati solo sui dati relativi alle remunerazioni, oltretutto, gli obblighi di trasparenza potrebbero scoraggiare le imprese ad assumere donne, proprio perché rischiano di compromettere le statistiche sulle retribuzioni. Pertanto, un nuovo intervento normativo dovrebbe tener conto di tutto ciò.

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Dopo la pochezza del precedente esecutivo su questo fronte, è positivo che il tema della disuguaglianza di genere sia di nuovo al centro dei propositi del governo. Che ci sia nuovamente un ministero – e una ministra – per le Pari opportunità, anche. A migliorare la situazione non basterà però il proposito espresso sulla carta di ridurre le disuguaglianze. Dati i numeri italiani, il lavoro certo non mancherà.

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Il Punto

  1. Savino

    Gli italiani sono condizionati da stupidi pregiudizi che riguardano soprattutto le donne e i giovani. Non è una questione di economia o di politica. E’ una questione antropologica, di questo popolo scarsamente umile, molto selettivo (al limite del razzista, del sessista, del classista) e molto pieno di sè. Ma la spocchia, nel mondo globalizzato contemporaneo, non funziona.

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