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Non basta un Memorandum per conquistar la Cina

Dopo la firma del Memorandum of Understanding in primavera, ora l’Italia è ospite d’onore all’esposizione di Shanghai. Ma tutto ciò non ha comportato un aumento delle nostre esportazioni verso Pechino, limitate nel 2019 al solo settore alimentare. 

Italia ospite d’onore al Ciie

L’Italia è tra i 15 paesi ospiti d’onore (su 60 partecipanti) alla China International Import Expo (Ciie), in corso in questi giorni a Shanghai, alla sua seconda edizione. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è intervenuto in apertura, nel suo ruolo di promotore del made in Italy, riponendo grandi speranze nei risultati attesi di aumento dell’export italiano verso la Cina. Le 90 imprese presenti (rispetto alle 30 dello scorso anno) sperano di aumentare la diffusione dei loro prodotti in Cina e le collaborazioni con imprese locali. Si tratta quindi di un appuntamento importante che dovrebbe mostrare gli effetti concreti dell’intesa firmata lo scorso marzo dal Presidente della repubblica Sergio Mattarella e dal suo omologo cinese Xi Jinping nella forma di un Memorandum of Understanding per la collaborazione tra i due paesi nella realizzazione della Belt and Road Initiative (Bri).

Bri è stata inserita nella costituzione della Repubblica popolare cinese e nello statuto del Pcc e il suo scopo ultimo è l’istituzione di “uno spazio strategico stabile e favorevole allo sviluppo a lungo termine dell’economia cinese”.

Contratti Bri ed esportazioni

I benefici per l’Italia dell’intesa per il momento non sono chiari. Per giustificarla sia di fronte al Parlamento sia di fronte ai cittadini, la primavera scorsa il governo ha sostenuto che avrebbe facilitato gli affari con le imprese cinesi e che avrebbe permesso all’Italia di colmare il divario di esportazioni verso la Cina rispetto agli altri grandi paesi europei, soprattutto Francia e Germania. Tuttavia, nel testo dell’accordo non vi è alcun riferimento al corso delle relazioni commerciali bilaterali, e le autorità di Pechino continuano a confermare in sedi varie che tali intese non comportano alcun impegno cinese in termini di riequilibrio del saldo commerciale, tuttalpiù favoriscono un aumento dell’interscambio, cioè la somma tra export e import, e non invece relazioni commerciali equilibrate che imporrebbero di considerare anche reciprocità, regolamentazione su pratiche non concorrenziali e violazioni di copyright.

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Indubbiamente, non vi è alcuna correlazione tra la firma di un Memorandum e il numero di progetti finanziati nel paese con i fondi dedicati a Bri.

Se guardiamo gli altri 55 paesi che hanno firmato intese simili (di cui non esiste un elenco ufficiale), non emerge una tendenza comune. Ciò che si può vedere è che, tra i paesi che hanno ricevuto il maggior numero di progetti targati Bri, non vi è un andamento univoco dell’export verso la Cina. Alcuni di essi, con almeno 15 progetti Bri realizzati o in corso – Myanmar, Sri Lanka, Cambogia, Serbia, Laos e Vietnam – hanno in effetti registrato aumenti considerevoli dell’export verso la Cina (fino a quasi il 300 per cento). Tuttavia, altri destinatari di molti progetti Bri, per esempio l’Indonesia, non hanno registrato alcun incremento delle esportazioni verso Pechino e alcuni hanno addirittura avuto forti riduzioni, come il Pakistan, il Kazakistan e l’Arabia Saudita. In questi ultimi, è significativo il divario tra i risultati concreti e la narrativa che prevale all’interno sui benefici della Bri quale canale per aumentare l’accesso al mercato cinese, che evidentemente non dipende soltanto da questioni puramente infrastrutturali.

Se l’andamento dell’export è incerto, l’import dalla Cina, invece, ne segue uno più uniforme. È aumentato significativamente e in misura tanto maggiore quanto più elevato è il numero dei progetti Bri nei paesi considerati. La correlazione tra quei progetti e import dalla Cina è alta e positiva, vale a dire che per ora i benefici in termini di accesso al mercato sono stati generalmente maggiori per Pechino che per gli altri paesi che hanno aderito all’iniziativa.

L’interscambio Italia-Cina

Al di là dei confronti, come stanno andando le relazioni Italia-Cina? Secondo i dati di Eurostat, nel 2018 esportavamo per soli 13 miliardi di euro, molto meno di Francia (quasi 21 miliardi), Regno Unito (23 miliardi) e Germania (quasi 94 miliardi).

Con oltre 30 miliardi di importazioni, siamo in disavanzo con la Cina, una condizione che condividiamo con quasi tutti i paesi europei tranne la Germania, che ha un avanzo di oltre 18 miliardi di euro (la Finlandia e l’Irlanda, per poco più di 1 miliardi ciascuna). Il divario riflette non soltanto la forza dell’export tedesco, ma anche in buona parte la geografia europea delle filiere produttive, che vede molti paesi partecipare con beni intermedi e strumentali ai prodotti che Berlino poi esporta nel mondo, Cina inclusa.

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Nel 2019 le esportazioni italiane verso la Cina sono diminuite rispetto all’anno precedente e le poche linee di export che hanno ricevuto il nulla-osta da Pechino sono tutte nel settore alimentare per prodotti non lavorati o semi-lavorati (arance, carne bovina e suina, riso) e non riguardano quelli confezionati a maggior valore aggiunto nazionale. Si tratta esattamente dei prodotti di cui le tavole cinesi hanno grande necessità, in quanto il paese, sebbene grande produttore, è importatore netto e soffre di una crescente dipendenza alimentare dai suoi fornitori esteri. La Ue ha firmato in questi giorni l’accordo sulla protezione reciproca delle indicazioni geografiche (Ig), dopo oltre un decennio di negoziati. È un passo simbolico, ma non cambierà drasticamente il volume dell’export. Accontentarsi di qualche prodotto riconosciuto e di un maggior numero di turisti cinesi in Italia significa assecondare una visione cinese dell’Italia e del made in Italy che nella recente narrativa cinese è protagonista, insieme agli altri paesi del Mediterraneo, di una cooperazione agricola e culturale, mentre con Francia e Germania la Cina coopera nei campi della scienza e della tecnologia.

Non vi è Memorandum che possa cambiare il corso delle relazioni con la Cina senza accordi concreti e soprattutto senza la consapevolezza che veri progressi, al di là delle promesse o delle aspettative, possono essere raggiunti soltanto alzando le pretese e unendo le forze a livello europeo.

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  1. Chiunque lavori o abbia lavorato in Cina sa bene che i MOU e addirittura le LOI hanno ben poco valore. Ciò che conta sono i CONTRATTI e questi richiedono perseveranza e capacità di negoziazione con la mentalità cinese; solo così si ottengono grandi soddisfazioni e rapporti duraturi (io li ho esattamente da 40 anni). Ciò premesso I Cinesi sono molto selettivi e scelgono solo il meglio a livello mondiale: niente perline e specchietti….

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