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La sugar tax all’italiana manca l’obiettivo

Una sugar tax dovrebbe disincentivare l’adozione di regimi alimentari non salutari. Così come formulata, quella italiana sembra derivare solo dalla necessità di recuperare risorse. Resta lontano, invece, l’obiettivo di migliorare la salute dei cittadini.

Perché viene introdotta la tassa

La manovra economica varata dal governo, al Titolo II, parla di “Misure fiscali a tutela di ambiente e salute” e all’articolo 82 fa specifico riferimento a una sugar tax. Il disegno di legge prevede un’imposta sul consumo delle bevande analcoliche, intese come prodotti finiti rientranti nelle voci NC2009 (per esempio i succhi di frutta) e NC2202 (come la birra analcolica, acque minerali o gasate con l’aggiunta di zuccheri, dolcificanti o aromi) della nomenclatura combinata dell’Unione Europea, ottenuti con l’aggiunta di edulcoranti e che hanno un titolo alcolimetro inferiore o uguale a 1,2 per cento in volume.

L’imposta consiste in 10 euro per ettolitro per i prodotti finiti e in 0,25 euro per chilogrammo per i prodotti predisposti a essere utilizzati previa diluizione.

In Italia non è la prima volta che si parla di “sugar tax”. Già nel 2012 si era discusso di una tassa sulle bevande gasate e zuccherate, ma dopo un acceso confronto la misura era stata abbandonata. Il nostro paese non è neanche un precursore in questo ambito, dal momento che provvedimenti simili sono stati adottati e sono attualmente in vigore in oltre 50 paesi.

In generale, il fondamento economico di una simile tassa è quello di correggere gli effetti negativi dovuti al sovra-consumo di prodotti alimentari a elevata densità energetica e ricchi in zucchero: generano infatti costi sanitari per la società imputabili alla diagnosi e alla cura di patologie come obesità e diabete. Dovrebbe essere un’imposta a carico del soggetto produttore e l’aliquota dovrebbe essere determinata dall’ammontare del danno marginale misurato. Il gettito che produce, attraverso specifiche azioni, dovrebbe essere restituito alla popolazione nel suo insieme o al soggetto che subisce l’esternalità. La tassa potrebbe configurarsi come una sorta di “imposta pigouviana”, come lo è la carbon tax, l’ecotassa rivolta a compensare i costi sociali delle esternalità negative dovute agli effetti dei gas serra sull’ambiente.

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Da un altro punto di vista, più controverso, dietro la sugar tax potrebbe esserci l’intento di affrontare il problema del danno che un individuo può generare alla propria salute con un comportamento non salutare e i conseguenti costi che ne derivano nel medio e lungo periodo. In altre parole, i consumatori che non sono in grado di limitarsi nell’assunzione di un prodotto, come una bevanda zuccherata, potrebbero beneficiare di un sistema di tassazione che li aiuta a ridurne il consumo.

In entrambe le interpretazioni, quindi, dovrebbe trattarsi di un’imposta che ha come obiettivo quello di disincentivare l’adozione di regimi alimentari non salutari, per contrastare la crescente diffusione di patologie quali l’obesità o il diabete, contribuendo a contenere le spese sanitarie sostenute dallo stato. Soprattutto in Italia, in cui, secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, più di un terzo della popolazione adulta è in sovrappeso e una persona su dieci è obesa, una politica come questa potrebbe utile per disincentivare i consumi di prodotti alimentari non salutari e in generale per limitare le malattie correlate all’alimentazione.

I problemi della tassa italiana

L’attuale formulazione della sugar tax italiana sembra però avere come obiettivo solo quello di finanziare le casse dello stato, probabilmente con il fine di ricavare risorse da investire nella scuola e nell’università. Nel bilancio di previsione si parla di un gettito pari a 234 milioni di euro.

La proposta solleva perciò alcuni quesiti.

In primo luogo, l’imposta è alquanto bassa (10 centesimi per litro) rispetto a quella adottata in altri paesi e non articolata in funzione del contenuto in zuccheri. Dati pubblicati di recente mostrano che in alcune città americane aliquote più elevate hanno determinato una riduzione consistente nelle vendite di bevande zuccherate. Mentre, così come strutturata in Italia, difficilmente la tassa potrebbe essere in grado di influenzare i consumi e, indirettamente, incidere sulla salute pubblica. Questo trova conferma anche nel fatto che non è prevista una riduzione significativa del gettito fiscale.

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In secondo luogo, le risorse ricavate dovrebbero essere utilizzate per avviare programmi di educazione alimentare o in azioni di promozione dell’attività fisica e non essere reinvestite in settori diversi.

Un terzo punto riguarda gli obiettivi del governo. Se da un lato è condivisibile cercare fondi da destinare all’istruzione, che sicuramente ne ha particolarmente bisogno, dall’altro 234 milioni di euro non sono certo sufficienti per azioni rivolte a rilanciare la scuola o più in generale l’istruzione.

Pertanto, la misura non è chiaramente definita né è indicato in maniera univoca l’obiettivo che si intende perseguire.

Inoltre, per modificare un comportamento alimentare è necessario pensare a una politica complessiva di salute pubblica, che accanto all’imposizione di una singola tassa, contempli una serie di interventi rivolti all’informazione e alla promozione di scelte più salutari. Esempi potrebbero essere azioni da realizzare direttamente nei luoghi in cui avvengono le scelte alimentari (come tecniche di “nudging”) da sviluppare all’interno dei supermercati) o attività di educazione alimentare, così come la semplificazione delle informazioni riportate sulle etichette dei prodotti.

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  1. Le tecniche di “nudging” hanno prodotto alcuni risultati ma , mancando ogni forma di incentivo per le aziende che le intraprendono, mi chiedo come possano essere d’interesse in Italia a ogni gestore di mense o supermercato. Sarebbe inoltre utile vedere quanto è l’investimento dello stato per l’educazione alimentare e quanto invece spende una singola azienda per una campagna promozionale dei suoi prodotti sui principali media. Credo che il rapporto sia di uno a 100. Per questo a mio avviso lo stato dovrebbe intervenire piu’ massicciamente affinche’ una parte della raccolta pubblicitaria abbia obiettivi consolidati e condivisibili di educazione (civica, alimentare, ….)

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