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Usa: quando lo stato si vede solo nella violenza della polizia

Il 25 maggio George Floyd è stato ucciso da un agente a Minneapolis. Il fatto ha scatenato fortissime proteste e ha messo a nudo problemi strutturali nei rapporti tra la polizia Usa e la comunità afroamericana. Risolverli richiede riforme radicali.

Violenza della polizia in America: qualche dato 

George Floyd, un cittadino nero di Minneapolis di 46 anni, è stato ucciso da un agente di polizia il 25 maggio. Era stato avvicinato dagli agenti all’uscita di un supermercato con l’accusa di aver acquistato un pacchetto di sigarette usando una banconota contraffatta da 20 dollari. Un video ripreso da un passante mostra la dinamica della morte: Floyd è a terra, già ammanettato, e uno degli agenti, Derek Chauvin, bianco, gli preme un ginocchio sul collo. Per cinque minuti, Floyd implora l’agente di lasciarlo respirare, fino a perdere conoscenza.

Quello di Floyd è il penultimo di una lunga serie di casi in cui gli ufficiali di polizia americana fanno uso della forza contro cittadini disarmati con conseguenze letali (l’ultimo la sera del 12 giugno ad Atlanta). Le banche dati nazionali più complete sulle uccisioni perpetrate ogni anno da parte della polizia americana sono curate da due quotidiani, il Washigton Post e The Guardian. Nel 2019, 1003 persone sono state uccise da membri delle forze di polizia. Di questi, 55 erano disarmati. Benché siano all’incirca il 13 per cento degli abitanti del paese, i cittadini afroamericani costituiscono il 24 per cento delle vittime totali e il 25 per cento di coloro che non erano armati al momento dell’uccisione.

Una crisi di legittimità

I numeri mostrano che le uccisioni di civili da parte della polizia americana avvengono con maggior frequenza nelle comunità di colore. Benché certamente significativo, il dato non è però sufficiente a comprendere la portata delle proteste seguite alla morte di Floyd, né la natura del malcontento nei confronti delle forze di polizia che esprimono. L’inquietudine è particolarmente intensa in quelle aree urbane che il sociologo Loïc Wacquant ha definito gli “iper-ghetti”, in cui segregazione razziale e marginalizzazione economica si incrociano e sovrappongono, rafforzandosi a vicenda.

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Negli “iper-ghetti” americani, lo stato è percepito da molti come eccessivamente repressivo e, allo stesso tempo, come incapace di difendere i loro diritti. Uno studio recente dà l’idea di quanto il sentimento sia diffuso nelle comunità di colore. Le autrici – Vesla Weaver, Tracey Meares e Gwen Prowse – hanno condotto interviste e focus group con un campione di oltre 1.500 individui, selezionati tra i residenti di dodici quartieri a maggioranza nera in cinque centri urbani americani. Le parole di questi cittadini evocano l’immagine di uno stato a due facce: sempre presente quando si tratta di sorvegliare e punire le piccole infrazioni (si pensi alla banconota contraffatta di Floyd), ma lento e inefficace se chiamato ad agire per tutelare i cittadini.

Per comprendere le proteste e le violenze seguite alla morte di Floyd è necessario prendere in considerazione questo contesto di sfiducia radicale nei confronti delle forze di polizia, e più in generale dell’autorità pubblica. Specialmente nelle comunità urbane più segregate, episodi di ricorso arbitrario alla violenza da parte degli agenti non sono percepiti come casi isolati o eccezionali di abuso di potere, bensì come la manifestazione più eclatante di un sistema fallimentare di governo del territorio.

Benché l’operato della polizia nei quartieri più marginalizzati sia al centro delle proteste esplose dopo la morte di Floyd, queste si sono estese ben al di là degli “iper-ghetti”. A manifestare sono anche professionisti e membri della classe media afroamericana, esasperati dai continui episodi di discriminazione che subiscono a opera degli agenti di polizia. A New York, Washington e Los Angeles è stato calcolato che oltre il 50 per cento dei manifestanti sono bianchi, in prevalenza sotto i 34 anni e con titolo di studio universitario. La mobilitazione multirazziale e di diversi strati sociali esprime il dissenso dell’America progressista verso la presidenza Trump e la sua disastrosa gestione della crisi, ma è anche il segno di trasformazioni profonde nell’opinione pubblica su discriminazioni razziali e abusi della polizia.

La necessità di riforme radicali

La complessità della situazione richiama l’esigenza di un intervento che si sviluppi lungo un doppio binario. Anzitutto, è necessario disciplinare daccapo le interazioni tra ufficiali di polizia e popolazione civile, creando nuove regole che circoscrivano il potere degli agenti di ricorrere all’uso della violenza, e garantendo una sanzione effettiva contro gli eventuali abusi. Vanno in questo senso, ad esempio, le richieste di rafforzare i Civilian Review Boards, comitati locali che supervisionano l’operato degli agenti. Per limitare il potere dei sindacati di polizia nell’ostacolare le indagini sulla condotta degli agenti e nel vanificare le sanzioni per i responsabili degli abusi si dovranno rivedere i contratti collettivi, negoziati a livello municipale. I parlamenti statali hanno il potere di riformare le “carte dei diritti” che in quattordici stati accordano agli agenti ulteriori protezioni contro il licenziamento e altri provvedimenti per motivi disciplinari. A livello federale, il Congresso potrebbe contribuire riformando le regole sulla qualified immunity, che attualmente rendono pressoché impossibile perseguire nelle corti federali gli agenti di polizia che violano i diritti civili.

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Sebbene una riforma dell’uso della forza da parte della polizia sia urgente, non è sufficiente se non viene accompagnata da un più generale ripensamento del rapporto tra cittadinanza e autorità pubblica. Negli Stati Uniti, assistiamo da oltre trent’anni a un progressivo smantellamento dello stato sociale, mentre apparati di polizia e giustizia criminale sono chiamati a gestire le conseguenze di povertà e disagio sociale. Per le fasce più marginalizzate della popolazione, forze dell’ordine e sistema carcerario sono divenute il punto di contatto principale con i pubblici poteri. È questo modello punitivo del contratto sociale che va superato, se si vuole ristabilire un senso di fiducia nell’autorità pubblica.

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Razzismo, l’altra pandemia che infetta gli Usa

  1. Giuseppe GB Cattaneo

    Ciò che mi preoccupa è che quello che accade negli Stati Uniti dopo qualche tempo accade anche in italia

    • alberto pera

      Premetto: la cronaca dell’omicidio di Floyd è veramente terrificante, perché mostra l’atteggiamento di arroganza incosciente di tutti i poliziotti coinvolti, probabilmente comune alla maggioranza dei corpi di polizia negli USA. Però, da una consultazione casuale dei dati disponibili in rete risulta che: Minneapolis è una delle città più pericolose degli USA; il crime rate è del 20 per mille: cioè il rischio di subire reati è del 2 per cento; il numero di omicidi, sebbene dimezzato dal 2015 è ancora tra i più alti nel paese (48 nel 2019 su una popolazione di 460mila persone: per fare un confronto a Roma sono stati 13 su 3.5 milioni); gli atti di violenza sono per l’85 per cento da parte dei neri, mentre per il 60 per cento sono subiti dalle altre etnie. Questo per dire che la violenza della polizia è anche il riflesso di una non risolta situazione sociale. Senza affrontare i temi dell’intervento di sostegno, del welfare ma anche dell’integrazione economica, il solo intervento sulle forze di polizia non basta.

    • Nicola

      Penso possa stare tranquillo, se considera il dato stridente della percentuale dei carcerati USA rispetto a quella italiana, unita all’inefficienza del sistema penale nostrano, che si manifesta nelle centinaia di migliaia di prescrizioni che si verificano ogni anno, nonostante il numero molto elevato, in Italia, di fattispecie di rilevanza penale. L’Autore afferma che negli USA “Per le fasce più marginalizzate della popolazione, forze dell’ordine e sistema carcerario sono divenute il punto di contatto principale con i pubblici poteri.” In Italia, dove lo stato sociale rimane abbastanza presente, questa valutazione penso sia applicabile solo a frange marginali di popolazione, legate soprattutto al traffico ed al consumo degli stupefacenti.

  2. Jorge

    Sostenere che la popolazione nera sia il 13% della popolazione USA mentre tra le vittime della polizia un quarto siano neri non dimostra alcuna discriminazione nei confronti dei neri: più significativo sarebbe il confronto di quest’ultimo dato con la quota di neri tra la popolazione carceraria USA, che mi risulta pari a circa il 40%. Sembrerebbe che tra chi commette reati i neri siano meno a rischio di violenza da parte della polizia. Potrebbe ovviamente esserci discriminazione nel fatto che siano così tanti i condannati neri, ma forse sarebbe più da parte dei magistrati che dei poliziotti. Poco so del merito della questione, ma sarei più cauto nel scegliere la correlazione tra variabili.

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