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Impresa familiare: dà il meglio di sé quando è piccola*

La proprietà e la gestione familiare incidono sui risultati aziendali. Gli effetti però mutano in modo significativo con la dimensione dell’impresa. Possono essere positivi per gli operatori piccoli, mentre diventano negativi per quelli più grandi.

Imprese familiari in Italia

L’elevata diffusione delle imprese familiari è stata talvolta indicata come una possibile causa della bassa crescita dell’economia italiana: i soci possono essere maggiormente orientati a privilegiare il controllo dell’impresa nel lungo periodo, in luogo della crescita, dell’innovazione e della produttività.

In un recente lavoro abbiamo esaminato di nuovo la questione, con dati più ricchi e rappresentativi del nostro sistema produttivo. In passato, molte analisi sulla proprietà e la gestione familiare erano basate su indagini campionarie – tipicamente effettuate presso imprese medie e grandi. Nel nostro studio, invece, abbiamo analizzato l’universo delle società di capitali attive nel settore privato non finanziario. Ciò che emerge è che la dimensione degli operatori è cruciale nel valutare gli effetti della proprietà familiare.

Ma procediamo con ordine. Anzitutto, i nostri risultati mostrano come le imprese familiari (ovvero quelle la cui maggioranza di capitale sociale è detenuta da uno o più soci con lo stesso cognome), a parità di localizzazione e settore produttivo, sebbene più resilienti, si connotino per una più bassa produttività del lavoro e una minore crescita del fatturato.

I risultati peggiori sono in parte riconducibili a un più contenuto tasso di innovatività, come confermato dalla bassa propensione a investire, innovare il processo produttivo, adottare buone pratiche manageriali e nuove tecnologie (figura 1).

Il controllo familiare, tuttavia, non è uniformemente distribuito tra le società. È più diffuso tra gli operatori più piccoli ed è, al contrario, minoritario tra quelli più grandi (figura 2).

Anche gli effetti della proprietà familiare mutano significativamente al variare della classe dimensionale considerata. Infatti, la peggiore performance delle “familiari” riguarda soprattutto le imprese di più ampia dimensione. Anche il cumulo del ruolo di socio con quello di amministratore – che per le società più piccole risulta benefico, riducendo i costi di agenzia – ha effetti negativi per le grandi imprese. I risultati suggeriscono che gli apporti di capitale e competenze esterne risultano particolarmente positivi per le società più grandi, che necessitano di competenze manageriali sofisticate e operano spesso in mercati più competitivi.

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Perché non crescono?

Se è fisiologico che le imprese nascano piccole e, magari, familiari, occorre chiedersi perché non crescano, aprendosi all’esterno. Ciò può dipendere da fattori culturali, ma è difficile che questo aspetto riesca a spiegare integralmente perché le imprese familiari siano più diffuse in Italia, rispetto agli altri principali paesi europei. La più ampia presenza del modello familiare nelle regioni meno sviluppate del paese, come mostrato nel nostro lavoro, suggerisce che la qualità delle istituzioni locali giochi di fatto un ruolo rilevante. Ad esempio, una maggior fiducia verso gli altri può favorire i processi di delega nelle organizzazioni; un miglior funzionamento della giustizia, come forma di tutela contrattuale, può promuovere la crescita delle società; la disponibilità di manager a livello locale può influenzare la scelta di assumere o meno un amministratore esterno (e la qualità di tale scelta). È parimenti importante comprendere i fattori sottostanti la resilienza delle imprese familiari, ossia se dipenda unicamente dalla selezione di progetti meno rischiosi o se, anche in questo caso, sia dovuta a fattori legati al business environment.

Capire perché le imprese familiari tendano a rimanere tali nel tempo e perché si dimostrino così resilienti potrebbe generare utili indicazioni di policy, oltre che rimanere una prospettiva di analisi importante per esaminare la produttività della nostra economia.

* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire agli autori e non investono la responsabilità dell’Istituzione di appartenenza.
** Questo è il seguito di un articolo apparso su questo sito il 6 giugno scorso.

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Un piano per la capitalizzazione delle imprese

  1. bob

    aldilà dei numeri e delle statistiche non possiamo prescindere dalla cultura . Quando dico cultura intendo saper leggere e scrivere quanto meno. La cultura insegna capacità di critica, desta curiosità e voglia di sapere. Inoltre è fondamentale nelle aziende familiari che almeno uno dei componenti faccia esperienze in aziende più grandi meglio se multinazionali. Oggi con la tecnologia accessibile e alla portata di tutti, puoi riportare l’esperienza gestionale in una grande azienda anche nella azienda familiare con i dovuti aggiustamenti. Ma ripeto con la tecnica senza una base culturale non si va da nessuna parte. Per cui il ruolo della scuola è fondamentale. Il “piccolo ma bello” tanto decantato soprattutto in certe aree geografiche, in particolare da una certa becera politica, è il vero fallimento della azienda familiare

  2. Vittorio Serito

    Dati estremamente interessanti, su cui temo ci sia ancora molto da approfondire. Alcuni spunti tratti dalla pratica professionale: a) se nella famiglia c’è il capitale umano occorrente, la proprietà famigliare dell’azienda non è un ostacolo alla crescita e all’innovazione, al contrario. b) se il valore dell’azienda è prevalente rispetto al valore del residuo patrimonio famigliare è molto facile che si attivino logiche di conservazione del controllo aziendale-societario, a prescindere dall’effettiva capacità e potenzialità di crescita. c) è un fattore intangibile, ma l’adeguato bilanciamento tra logiche famigliari e logiche aziendali è la chiave del successo o dell’insuccesso della famiglia e dell’impresa. d) l’impresa “testosteronica”, proiezione dell’ego dell’imprenditore, ben difficilmente riesce ad avere continuità.

  3. Enrico D'Elia

    Analisi ottima e puntuale. Ne trarrei un paio di indicazioni di policy:
    1) Le imprese familiari non hanno bisogno di incentivi agli investimenti e alla capitalizzazione, quanto di capitale umano;
    2) Visto che le imprese familiari relativamente più efficienti e resilienti sono quelle piccole, inutile puntare su queste strutture per accelerare lo sviluppo;
    3) Gli incentivi alla aggregazione delle PMI non possono funzionare, perché richiedono l’integrazione di famiglie più che di imprese.

  4. E’ vero, le aziende con meno di 15 persone funzionano bene in regime familiare. Quelle con piu’ di 15 occupati fino ad un massimo di 500 vanno bene come aziende COOPERATIVE (guardiamo l’esperienza MONDRAGON dei Paesi Baschi), e oltre le 500 unita’ o si divide la cooperativa in diversi settori (esempio nel settore automobilistico: una coop per la carrozzeria, una per i motori, una per l’assemblaggio, etc.)
    Le compagnie telefoniche, poste, autistrade, ferrovie, public companies che lavorano col criterio “ne’ perdita, ne’ profitto” per mantenere bassi i prezzi. I privati dovrebbero occuparsi di piccole attivita’, ristoranti, hotel, etc o del lusso.
    Questo creerebbe un’economia bilanciata e oiena occupazione, salvo che il paese miri alla AUTOSUFFICIENZAeconomica, come ben evidenziato nel caso dell’emergenza Covid-19.

  5. Filippo Ferrari

    Articolo veramente ben fatto e stimolante. Le dinamiche psicologiche e relazionali sono probabilmente l’aspetto più noto ma meno investigato dalla ricerca relativamente all’innovazione, e ignorato dalle policy (vedi gli incentivi all’aggregazione d’impresa, improponibile per jnua PMI famigliare, come giustamente evidenziato da Enrico D’Elia nel suo commento. Per un punto di vista nuovo, che prende in considerazione l’impatto della qualità dei fattori interpersonali sull’innovazione, chi è curioso può leggersi https://revistas.uma.es/index.php/ejfb/article/view/5388

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