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Rete pubblica o privata? Il punto sulla banda ultralarga*

Si è riaccesa la discussione sullo scorporo e sulla proprietà delle reti di telecomunicazione a banda ultralarga. Ancora una volta il tema della concorrenza s’intreccia con quello dello sviluppo delle infrastrutture e dei servizi innovativi.

Telecomunicazioni al tempo della pandemia

Il sistema delle telecomunicazioni ha attraversato l’emergenza coronavirus con alcune sfide vinte e la consapevolezza di nuovi importanti obiettivi da raggiungere. Tra le sfide, la capacità di gestire in modo sostanzialmente ordinato un aumento del 70 per cento del traffico su reti fisse rispetto ai volumi pre-Covid-19 e una inaspettata flessibilità degli utenti ad apprendere nuove modalità da remoto nel lavoro, nella formazione e nei rapporti sociali. Tra gli obiettivi, quello di consolidare le nuove abitudini digitali e di potenziare, al di là dell’emergenza, le infrastrutture di rete. A questi stimoli va ricondotto il riaccendersi della discussione sullo scorporo e sulla proprietà delle reti di telecomunicazione ultrabroadband. Al di là delle polemiche spicciole, ancora una volta si intrecciano i temi dello sviluppo della concorrenza e dello sviluppo delle infrastrutture e dei servizi innovativi.

Il quadro attuale

L’assetto di oggi nasce e si articola attorno a un dato principale: il mercato italiano è stato liberalizzato nel 1998, lasciando che l’operatore dominante Tim, allora Telecom Italia, possedesse e gestisse le infrastrutture di rete e offrisse al contempo anche i servizi di telecomunicazione, una soluzione di integrazione verticale che si ritrova tuttora nella gran parte dei paesi. A giustificazione di questo assetto è stato sempre sostenuto che l’architettura e lo sviluppo della rete condizionano le caratteristiche dei servizi che su di esse possono essere veicolati. È quindi necessario, recita il mantra tradizionale, che chi progetta e gestisce le reti abbia presente la natura dei servizi che si intendono sviluppare, e che quindi le due funzioni avvengano all’interno della stessa impresa.

La concorrenza nei servizi si è sviluppata imponendo all’operatore dominante di aprire, a condizioni non discriminatorie ed economicamente sostenibili, l’accesso e l’utilizzo della propria rete ai concorrenti, senza abusare del proprio potere di mercato in quanto monopolista di rete né sfavorendo i concorrenti nel mercato dei servizi. Al regolatore e al monitoring trustee il compito di garantire la parità di trattamento.

Integrazione verticale, accesso di terzi alle reti, presidio regolatorio sono i pilastri su cui il mercato italiano si è sviluppato per i servizi da rete fissa, in parallelo con il mondo del mobile che, non vantando posizioni dominanti già consolidate, ha garantito uno sviluppo intenso della concorrenza.

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Negli ultimi anni si è aggiunto un secondo obiettivo, lo sviluppo di una rete ultrabroadband capace di supportare i servizi innovativi di Internet. La logica del rendimento privato sugli investimenti ha frenato lo sviluppo delle nuove reti da parte di Tim e di altri operatori, anche a causa della debole domanda espressa da imprese, famiglie e pubblica amministrazione per i nuovi servizi. Con il governo Renzi le politiche pubbliche di incentivo alla costruzione della rete ultralarga hanno trovato rinnovato impulso, sia con il sostegno a un nuovo operatore, Openfiber, partecipato da Enel e Cassa depositi e prestiti, che con un articolato piano di contributi pubblici per lo sviluppo della rete in quelle zone (aree bianche) dove gli operatori privati non avevano intenzione di investire.

Oggi la situazione è caratterizzata da un operatore, Openfiber, che fornisce la rete ma non vende servizi (wholesale only), che ha vinto tutte le gare per lo sviluppo della rete nelle aree bianche e che tuttavia fronteggia tardivi piani di sviluppo da parte di Tim. Nelle aree (nere) si fronteggiano nuovamente Tim e Openfiber con offerte di fibra sino alla casa. L’Italia, da paese stabilmente posizionato agli ultimi posti nelle graduatorie europee, nell’arco di due anni si è trasformato in un mercato dove più reti si fanno concorrenza tra loro, pur con una perdurante carenza di utenti e di traffico veloce.

La rivoluzione copernicana del 5G

Nascono da qui i quesiti che oggi occupano il dibattito. Conviene avere più reti sullo stesso territorio? È possibile pensare a uno scorporo della rete Tim unendola a quella Openfiber? E chi dovrà essere il proprietario dell’infrastruttura?

Nel rispondere conviene partire chiedendosi se le giustificazioni per un operatore verticalmente integrato che gestisca assieme infrastrutture e servizi siano ancora giustificate. E qui dobbiamo far entrare in scena quelli che saranno i protagonisti del settore nei prossimi anni, i servizi 5G, dalla guida assistita alla domotica alla nuova logistica alla telemedicina. Servizi che, in estrema sintesi, si sviluppano non già utilizzando una sola infrastruttura, come la rete tradizionale, ma combinando più infrastrutture fisse e mobili contemporaneamente, gestite e attivate da chi il servizio lo disegna e lo gestisce. Questa rivoluzione copernicana ribalta il vecchio assunto per cui è la rete che condiziona i servizi. Nel mondo 5G i servizi utilizzano e gestiscono congiuntamente le reti disponibili. In una pluralità di infrastrutture dove la vecchia rete diviene un supporto neutro rispetto ai servizi, cui si richiede il trasporto di quantità enormi di dati, mentre sono i servizi che con componenti hardware e software combinano le infrastrutture più adatte.

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Nel nuovo mondo appaiono meno convincenti le ragioni per lasciare infrastrutture e servizi sotto uno stesso tetto e lo scorporo della rete ultrabroadband di Tim in un operatore wholesale only diviene una opzione desiderabile. A valle di ciò, perde rilevanza la necessità di avere più reti in concorrenza tra loro, da cui un possibile matrimonio tra rete Tim e rete Openfiber. Ma l’opzione di una rete unica richiede lo scorporo della rete Tim, mentre rappresenterebbe un ritorno al passato se semplicemente Tim assorbisse la rete Openfiber rimanendo un operatore verticalmente integrato.

Resta il problema della proprietà: se tale operatore solamente di rete debba essere un soggetto privato sottoposto alla vigilanza di una Autorità di regolazione e agli incentivi pubblici per lo sviluppo della rete nelle aree bianche o invece debba tornare nella sfera pubblica, con la Cassa depositi e prestiti quale azionista principale. Su questo ultimo aspetto non abbiamo risposte altrettanto nette, deponendo a favore della opzione privata un possibile vantaggio di efficienza e a sostegno di quella pubblica un maggiore e più diretto allineamento a obiettivi di carattere generale.

* Questo articolo è pubblicato in contemporanea su Il Foglio.

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  1. Marco

    Grazie mille per questo articolo! I settori delle telecomunicazioni e dei servizi web sono un ambito sempre più importante nella nostra società ma ancora troppo poco dibattuto.

    Mi piacerebbe che rispetto al problema della proprietà espresso in fondo all’articolo, si includesse nell’equazione anche aspetti importantissimi legati ai dati che vengono raccolti o che potenzialmente possono essere raccolti da tutto gli attori in gioco. Ad esempio le finalità di raccolta, garanzie sulla privicy e il valore dei dati (in euro).
    Ciao!

  2. Controbastian

    Secondo me: se in casa mia sono proprietario io, in Italia dovrebbe essere lo stato.

  3. Roberto Camporesi

    Pur nello spazio stringato di 1 articolo, credo che il rievocare questo tema non possa prescindere da una constatazione impietosa sulla traiettoria percorsa dopo la privatizzazione (con scarsa liberalizzazione) avvenuta nel 1998. Se era pur vero che Telecom era un carrozzone pubblico, nel 1998 la nostra rete si posizionava nei primi posti europei. Dopo 22 anni, l’azienda privatizzata dopo essere passata di mano varie volte è una azienda con 24 mld€ di debito e il nostro posizionamento nelle classifiche europee è via via scivolato verso gli ultimi posti perchè nel frattempo non ci siamo preoccupati di fare gli investimenti necessari a sostegno di questa infrastruttura strategica. Credo che appaia evidente che la privatizzazione non fu fatta con la necessaria visione strategica che una infrastruttura di quest tipo richiedeva.E’ utile richiamare che le privatizzazioni successive (rete energia elettrica, gas e ferrovie) si ispirarono al principio dell’unbundling tra rete e servizi mantenendo sotto il controllo pubblico l’infrastruttura (che è considerata bene comune, che sarebbe sciocco duplicare, ecc.). Infratel prima e Infracom poi presero forma quando si realizzò che gli investimenti sulla infrastruttura non venivano fatti ed era meglio che lo stato tornasse ad occuparsi delle zone a fallimento di mercato (mentre il mercato investiva poco, ma con ridondanze poco razionali, nelle aree ritenute più appetibili). Bisogna rimediare alle cose storte del 1998

  4. Wu Ming

    Cisco nel global networking trends report ha già previsto che nel 2022 più dell’80% del traffico internet sarà video. Chiedo all’autore di giustificare l’utilizzo di fondi pubblici per sostanzialmente garantire l’accesso a Netflix in UHD. Grazie.

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