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Nel dopo-pandemia pensiamo alla casa

La quarantena ha mostrato quanto sia importante avere una casa. È dunque il momento di riaprire il discorso sull’edilizia pubblica popolare. Approfittando anche dei bassi tassi di interesse, si potrebbe lanciare un piano da centomila abitazioni.

L’edilizia nel piano Colao

La lunga quarantena imposta dalla pandemia da Covid-19 ha reso ancor più evidente la disparità tra le famiglie che hanno potuto viverla in case spaziose e quelle costrette a passarla in abitazioni inadeguate o in strutture improprie e di emergenza. All’uscita dalla quarantena gli operatori immobiliari hanno iniziato a riflettere sull’opportunità di realizzare abitazioni mediamente più grandi di quelle ora disponibili, dove passare più comodamente eventuali altri periodi di isolamento. Naturalmente, gli appartamenti costeranno di più e la loro offerta interesserà, di conseguenza, i segmenti più benestanti della popolazione, trascurando il problema della casa per le famiglie con redditi modesti.

La necessità di occuparsi della questione è evidenziata nel Rapporto Colao, secondo cui il governo dovrebbe “sostenere un piano di investimenti finalizzato a potenziare un’offerta abitativa economicamente accessibile, socialmente funzionale ed ecosostenibile, attraverso la messa a disposizione di immobili e spazi pubblici inutilizzati da sviluppare con fondi pubblico-privati da offrire sul mercato a prezzi calmierati”. La genericità delle “azioni specifiche”, indicate solo per titoli (investimenti per il social housing anche utilizzando il patrimonio di edilizia convenzionata, fondi per l’edilizia agevolata), non offre però alcun contributo su come disegnare e attuare un programma con questo obiettivo.

Un piano da dieci miliardi

I tassi di interesse dei finanziamenti bancari particolarmente favorevoli offrono tuttavia l’opportunità di promuovere un piano edilizio di alloggi pubblici, di grande rilievo per importo dell’investimento e per impatto sociale, che contemporaneamente può dare un contributo al rilancio dell’economia e dell’occupazione.

Alle attuali condizioni di offerta del denaro, le finanze pubbliche possono sostenere un investimento di 10 miliardi di euro riversandone i costi, relativamente contenuti, su un lungo arco nel tempo. In una recente lettera alla Commissione europea, inviata dalle associazioni europee degli imprenditori edili per chiedere di destinare alle attività dei loro settori una quota ingente dei finanziamenti dell’European Recovery Fund, è stato indicato un moltiplicatore dell’investimento in edilizia che oscilla tra 1,9 e 2,9. Di conseguenza, l’investimento ipotizzato metterebbe in moto un volume complessivo di attività compreso tra circa il doppio e il triplo del suo importo. Finanziando il piano con un mutuo bancario trentennale a tasso fisso, il suo ammortamento comporta il pagamento di una rata annuale di circa 385 milioni. La cifra presuppone che il settore pubblico non riesca a negoziare con un istituto di credito condizioni migliori di quelle praticate a un soggetto privato che sottoscrive un mutuo per l’acquisto della prima casa.

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Centomila case popolari

La parte della rata che resterebbe a carico delle casse pubbliche sarebbe poi minoritaria, giacché il programma si autofinanzia, per una quota nettamente maggioritaria, con i canoni pagati dagli inquilini degli alloggi.

Con le somme ipotizzate si possono realizzare centomila abitazioni di superficie media intorno ai 60-65 metri quadri, cioè appartamenti con cucina, soggiorno e due camere da letto, oltre ad accessori. La progettazione e direzione lavori dovrebbe essere affidata agli uffici tecnici dei comuni e degli altri enti (come Iacp e Aler), che dovranno mettere a disposizione anche le aree e gli immobili su cui realizzare gli interventi. Il programma, infatti, dovrebbe essere incentrato sugli interventi di recupero, demolizione e ricostruzione, trasformazione di destinazione d’uso degli immobili già esistenti. Le nuove urbanizzazioni, nei limiti ristretti previsti dalle leggi regionali per arrivare al consumo di suolo zero nel 2050, sarebbero destinate prioritariamente alla realizzazione di nuove costruzioni, se necessarie.

Con un canone medio mensile di 250 euro per alloggio, a carico del settore pubblico resterebbe un onere di 85 milioni di euro l’anno (70 euro al mese per alloggio). Una cifra non trascurabile, ma la cui rilevanza si ridimensiona se la si rapporta all’elevato numero di nuclei famigliari per i quali si risolverebbe il problema della casa. D’altra parte, è assai probabile che qualsiasi altro intervento che si proponesse di abbattere i canoni di mercato pagati dalle famiglie beneficiarie del programma costerebbe molto di più.

Poiché i comuni e le regioni (attraverso gli Iacp e gli altri loro enti di edilizia sociale) diventano proprietari delle abitazioni, i loro bilanci dovrebbero accollarsi la parte dell’ammortamento del finanziamento non coperto con le entrate dei canoni. Probabilmente, dunque, le amministrazioni interessate dovrebbero reperire le risorse necessarie tagliando gli stanziamenti per altre iniziative, date le ristrettezze di bilancio. Decidere la destinazione di risorse scarse implica sempre una scelta politica. In questo caso, un elemento da non trascurare è che si tratterebbe di una spesa classificata in conto capitale. Il programma non avrebbe, perciò, conseguenze immediate o future sul debito e sul deficit statale.

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Il governo dovrebbe, dunque, solo promuovere il programma, ponendo fine alla lunga latitanza degli esecutivi precedenti sulla politica per la casa. Se lo facesse, consentirebbe a chi afferma che con il Covid-19 “niente sarà come prima” di sperare che il dopo possa essere migliore, e non solo per le molte famiglie deboli che hanno bisogno di una casa.

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Il distanziamento sociale è una questione culturale

  1. Fabrizio Fabi

    Altre costruzioni ? in un paese che ha il doppio dei vani ncessari alla popolazione (che sta pure calando) ? Oltretutto mettendo nella gestione i Comuni, le Regioni, gli IACP ? Mi pare follia !!!
    Molto meglio invece aumentare l’IMU su tutte le abitazioni non affittate (incluse le prime case), alleviandola o azzerandola invece su quelle date in locazione… Capisco che, in tempi di populismo, sia un discorso ostico, ma la verità non si può occultare indefinitamente.
    Le risorse pubbliche che la UE renderà disponibili devono invece essere usate anzitutto a migliorare l’apparato produttivo e la qualificazione dei lavoratori.
    Salverei solo l’dea della “rottamazione” dell’edilizia brutta, in zone alluvionali, ex abusiva, non antismica, soprattutto quella degli anni Sessanta e dintorni.

  2. Giuseppe Andria

    Ottima la proposta di recupero del patrimonio edilizio già esistente. Case per chi non ha la casa e con canoni calmierati e poca spesa pubblica, non è mica roba da buttare e poi l’edilizia è una componente importante della domanda aggregata che mobilita naturalmente gli investimenti in altri settori produttivi. Speriamo che chi decide legga ogni tanto lavoceinfo e prenda seriamente in considerazione questa proposta da due piccioni con una fava. Per quanto riguarda la gestione, certo Comuni, IACP e “compagnia cantando” sono troppo lenti, bisogna trovare il modo per mettergli le ali.

  3. Henri Schmit

    Il tema è importante, l’idea è interessante, ma la proposta non mi convince interamente. L’edilizia popolare presenta delle criticità non menzionate: 1. la disponibilità dei terreni e/o immobili e la definizione (e approvazione) delle caratteristiche urbanistiche e architettoniche per la costruzione o la ristrutturazione; 2. le condizioni di finanziamento: forma, costo e rimborso; 3. gli appalti e il controllo dell’esecuzione dei lavori; 4. la definizione e l’applicazione delle condizioni di accesso e di selezione dei beneficiari; 5. le condizioni di affitto; 6. la capacità della mano pubblica di gestire la proprietà immobiliare (manutenzione e locazioni). Mi fermo qua. In Lombardia, la realtà che mi è più vicina, la gestione delle ALER non mi sembra un modello da sviluppare; andrebbe prima radicalmente riformato. Guarderei piuttosto al Trentino, o all’estero. Le ipotesi di costo dell’articolo mi sembrano congrue, ma non è chiaro se comprendono l’acquisto di terreni o immobili. Per l’occupazione offrirei un’alternativa ai beneficiari: affitto calmierato p.es. di € 250 al mese per appartamenti da 60 m2, nella periferia di Milano) o acquisto con riserva di proprietà in 20/30 anni a rate di € 450/350. Sarebbe importante includere nel piano previsionale un costo annuale alto di gestione e di manutenzione, tallone di Achille di numerosi casi esistenti di social housing. Sarebbe una garanzia del mantenimento del valore nel tempo, invece del solito degrado.

  4. Pier Giorgio Visintin

    Sono daccordo con Fabrizio che dice: la popolazione sta pure calando! E questo è il problema concreto. Su questo tema non sento proposte, non vedo studi, e neppure proposte. Questo è il primo problema in Italia. Intorno al tema principale ci sono quelli correlati: gli asili nido magari diffusi e autogestiti dai genitori, il lavoro delle madri, ed per finire gli aiuti alle madri con figli e alle famiglie. Si può, sicuramente, dire meglio, ma a parte il dire è meglio il fare.

  5. bob

    E’ classico in un Paese senza memoria che si vada avanti per spot. Aggiungo che ad una classe politica di una mediocrità assoluta ( non riscontrabile in nessun periodo storico di questo Paese) fa comodo andare avanti per spot non avendo spessore per fare altro. Aggiungerei la situazione culturale di questo Paese ( analfabetismo + analfabetismo funzionale) alimentato da un regionalismo inutile oltre che dannoso. Il disastro è compiuto. I periodi storici sono diversi ma sul progetto per qualità e lungimiranza non si discute: Il Piano Casa INA- Fanfani del dopoguerra. Caro prof almeno un accenno .

  6. Giuseppe Cusin

    Il 13 luglio 2020 l’Istat ha reso noto che nel 2019 rispetto al 2018 le nascite sono diminuite ancora (-4,5 %), mentre sono aumentati gli italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero (+8,6 %).Si tratta di fenomeni che continuano da tempo, senza che venga preso nessun provvedimento per contrastarli. Il cattivo funzionamento del mercato delle abitazioni è uno dei fattori che li condizionano: affitti troppo alti e patrimonio immobiliare largamente obsoleto, insieme ad una mobilità che funziona male, sono circostanze note. Un piano per la casa come quello proposto dal prof. Lungarella è un’ottima proposta. Investimenti pubblici per aumentare il patrimonio abitativo, se ben gestiti, si autofinanziano in gran parte, e un aumento dell’offerta di abitazioni ad affitti bassi oltre che diminuire gli affitti delle abitazioni esistenti, ne diminuisce anche il prezzo di mercato. E’ facile capire come questo faciliti la formazione di nuove famiglie e aumenti il livello dei salari reali.

  7. Carlo

    E se invece di costruire nuove case (presumibilmente nelle grandi citta’) guardassimo al futuro e tentassimo di accelerare la diffusione del lavoro da casa? L’Italia e’ peina di seconde case vuote per 11 mesi all’anno e di paesini spopolati. Magari con servizi adeguati – a cominciare da internet veloce – e con i costi bassissimi di affitto che hanno, potrebbero rivelarsi un’alternativa piu’ interessante di una casa popolare di 65 mq…

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