La crisi economica causata dalla pandemia ha avuto gli effetti più duri sui lavoratori immigrati. È cresciuta per loro la probabilità di perdere il lavoro ed è aumentato il divario occupazionale con gli italiani, soprattutto per le donne.

I migranti nel mercato del lavoro italiano

La crisi economica globale innescata dalla diffusione del coronavirus è stata particolarmente forte in Italia, dove secondo l’Oecd nel 2020 il Pil si è contratto del 9,1 per cento rispetto all’anno precedente, contro un calo medio del 7,5 per cento nell’area euro.

Due recenti interventi su lavoce.info hanno notato come i lavoratori migranti siano stati più esposti degli autoctoni alle conseguenze negative della recessione. Nel Quinto Rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni del Collegio Carlo Alberto e del Centro Studi Luca d’Agliano, abbiamo analizzato le conseguenze che la crisi da coronavirus ha avuto sui lavoratori immigrati Italia nel suo periodo inziale, utilizzando i microdati della Rilevazione sulle forze di lavoro Istat fino al secondo trimestre 2020.

Nel 2019, la probabilità di occupazione dei residenti stranieri in Italia era di 1,3 punti percentuali inferiore rispetto a quella degli italiani (rispettivamente 65,2 e 66,5 per cento nella fascia di età 25-64). Inoltre, il tipo e le condizioni di lavoro svolto differivano tra le due popolazioni. I lavoratori immigrati avevano una maggiore probabilità di essere assunti con un contratto a tempo determinato rispetto ai lavoratori italiani (24 per cento contro 14 per cento).

Come nel resto d’Europa, anche in Italia i lavoratori stranieri avevano una probabilità maggiore rispetto a quella degli autoctoni di svolgere una professione ritenuta dalla Commissione europea “essenziale” per la risposta alla pandemia (rispettivamente 42 per cento e 31 per cento). Appartengono alla categoria “essenziali” non solo le professioni mediche, ma altri lavori – anche poco qualificati – che sono indispensabili per il funzionamento delle nostre economie durante l’emergenza sanitaria, come i trasportatori, i netturbini o gli addetti alle pulizie. L’Italia è il paese europeo dove la differenza tra la percentuale di immigrati e nativi in professioni essenziali è maggiore (11 punti percentuali contro una media Ue di 6 punti percentuali). Tuttavia, la concentrazione nei settori industriali che hanno potuto continuare le attività durante il lockdown della primavera 2020, e che hanno quindi probabilmente risentito meno in termini occupazionali rispetto a quelli ai quali è stato imposto lo stop, è inferiore fra i migranti che fra gli italiani: circa il 50 per cento degli stranieri lavorava in uno di questi settori, contro il 58 per cento fra gli italiani (figura 1).

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Figura 1

Inoltre, grazie ai dati dell’indagine campionaria sulle professioni Icp condotta dall’Inapp, possiamo costruire un indice di “facilità di telelavoro” che permette di classificare le diverse professioni sulla base di quanto siano praticabili da remoto. La figura 2 mostra come i migranti siano più concentrati nella parte bassa della distribuzione, in professioni a bassa “telelavorabilità”; al contrario, i lavoratori italiani sono maggiormente presenti nella parte alta.

Figura 2

L’effetto del Covid-19

Complessivamente, la maggiore frequenza di contratti temporanei, la concentrazione in settori chiusi dal lockdown e in professioni difficilmente svolgibili da remoto rende la popolazione straniera più vulnerabile rispetto a quella italiana. Per capire quale sia stato l’effetto della pandemia sull’occupazione dei migranti in Italia, possiamo studiare come il differenziale nella probabilità di occupazione tra migranti e nativi sia cambiato prima e dopo l’emergere del coronavirus.

Figura 3

In figura 3 riportiamo il differenziale, in punti percentuali, nella probabilità di occupazione tra immigrati e nativi per ogni trimestre tra il primo del 2018 e il secondo del 2020. È evidente un elemento di stagionalità: il differenziale è generalmente minore nel secondo e terzo trimestre e maggiore nel primo e nell’ultimo trimestre di ciascun anno. Durante i primi sei mesi del 2019, in media, i migranti avevano una probabilità di occupazione di 1,5 punti percentuali inferiore rispetto a quella degli italiani. Il differenziale è salito a 4 punti percentuali durante la prima metà del 2020, con una crescita particolarmente pronunciata nel secondo trimestre, colpito dalla crisi da Covid-19.

Figura 4

Il peggioramento del differenziale nella probabilità di occupazione è dovuto quasi totalmente alla crescita della disparità tra donne straniere e italiane, aumentata da -4,2 a -8 punti percentuali tra il primo semestre del 2019 e quello del 2020. È invece rimasta sostanzialmente invariata la performance relativa di uomini stranieri e italiani (figura 4). Fra le donne si registra anche un aumento del differenziale nella probabilità di svolgere un lavoro poco qualificato.

Complessivamente, le conseguenze di breve termine della crisi innescata dalla pandemia sono state più forti tra i migranti, che erano concentrati in segmenti più vulnerabili del mercato del lavoro rispetto ai lavoratori italiani, e in particolare fra le donne. Sarà opportuno monitorare come le loro condizioni evolveranno nel medio termine, anche in considerazione del fatto, sottolineato già qualche mese fa, che per molti lavoratori stranieri alla perdita del lavoro potrebbe accompagnarsi quella del permesso di soggiorno. La conseguente caduta nell’irregolarità non potrebbe che far aumentare la loro marginalità economica e sociale.

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