Buenos Aires annuncia un accordo per la ristrutturazione del debito. Non era scontato, vista la storia creditizia e le gravi difficoltà economiche del paese. È una boccata d’ossigeno per il governo. Che ora però è chiamato a risolvere problemi endemici.
Come si è arrivati alla ristrutturazione
L’Argentina ha annunciato di aver ufficialmente raggiunto un accordo per la ristrutturazione del debito: una notizia non scontata, considerata la storia creditizia del paese e le difficoltà economiche generate dall’attuale crisi. Il governo ne esce politicamente rafforzato ma adesso dovrà affrontare i problemi endemici dell’economia.
Da mesi si parlava con insistenza di un nuovo default argentino, il nono della storia del paese. Si evocava lo spettro della bancarotta del 2001: un evento che ha segnato indelebilmente l’economia, tanto che solo nel 2016 l’Argentina era tornata a finanziarsi sui mercati. Il programma economico dell’allora neoeletto presidente Mauricio Macri (2015-2019) prevedeva di ridurre il deficit fiscale e di finanziarlo sul mercato con titoli emessi in dollari. Ma il tasso di interesse concesso sui titoli emessi in dollari sotto legislazione statunitense fu del 7 per cento. Non ci si fidava ancora del paese, soprattutto dopo gli anni della presidenza di Cristina Kirchner (2007-2015) durante i quali i dati economici erano stati falsificati dal governo e il deficit era monetizzato.
La ricetta economica di Macri di ridurre gradualmente il deficit si scontrò presto con le difficoltà nel diminuire la spesa pubblica (figure 1 e 2) e l’impossibilità di centrare gli obiettivi di crescita economica.
Persa nuovamente la fiducia dei mercati, nei primi mesi del 2018, il peso argentino dimezzò il suo valore rendendo insostenibile l’esposizione in dollari. Il conseguente prestito di 44 miliardi di dollari concesso dal Fondo monetario internazionale impedì il disastro economico. Per arginare la caduta del peso, il governo di Macri aveva optato per un ritorno a un tasso di cambio fisso e alle restrizioni al movimento di capitali.
Il paese ereditato dal presidente Alberto Fernández nel dicembre del 2019 era già sull’orlo della bancarotta. Il debito pubblico a fine 2019 ammontava a 323 miliardi di dollari, il 90 per cento del Pil. Di questi, 66 miliardi erano denominati in dollari sotto legislazione estera e dovuti a creditori privati, 42 denominati in dollari ma sotto legislazione nazionale e dovuti a privati e istituzioni nazionali, 44 all’Fmi e 34 al Club di Parigi. Era un’esposizione maggiore rispetto al 2001, quando i 144 miliardi di debito denominati in dollari rappresentavano il 50 per cento del Pil (figura 2). Eppure, è difficile comparare le due crisi perché nel 2001 il paese era arrivato al default dopo quasi dieci anni di parità tra il peso e il dollaro. Come riconosciuto dall’Fmi, la percentuale debito pubblico/Pil nel 2001 era “misleadingly low” (ingannevolmente bassa).
L’accordo raggiunto
L’accordo di oggi riguarda i 66 miliardi sotto legislazione estera. Rinvia il pagamento del capitale per almeno cinque anni, diminuisce leggermente il valore del capitale (-1,9 per cento) e riduce il tasso di interesse dal 7 al 3 per cento annuo. Così facendo, tra il 2020 e il 2024, il costo di tale debito sarà solamente 4,5 miliardi di euro (l’1 per cento del Pil) divisi in cinque anni. L’accordo si è chiuso a 55 centesimi per dollaro. Si tratta di una cifra vicina a ciò che i creditori chiedevano sin dall’inizio, mentre la prima offerta del governo, arrivata a marzo, era di 40 centesimi per dollaro.
Un aspetto centrale nella negoziazione è stata la definizione di un quadro legale che permetterà ai creditori di avviare azioni legali se il governo dovesse dichiarare default. I creditori si sono tutelati anche attraverso la modifica delle clausole di azione collettiva, riducendo così il rischio che l’offerta del governo possa cambiare col variare degli scenari macroeconomici. Difatti, il governo argentino non ha ancora presentato alcun piano economico e l’attuale crisi economica sta creando serie difficoltà a un paese che non registra un attivo di bilancio da più di dieci anni.
L’offerta presentata ai creditori esterni verrà poi riproposta per buona parte dei titoli denominati in dollari ma sotto legislazione nazionale. Si tratta di quasi 42 miliardi di dollari, di cui il 65 per cento in mano alla banca centrale e all’istituto di previdenza nazionale (Anses).
La ristrutturazione (108 miliardi di dollari) riguarda quindi quasi un terzo del debito totale e rappresenta un sollievo per le finanze pubbliche. Senza l’accordo, il costo del debito per i prossimi cinque anni avrebbe superato i 14 miliardi di dollari annui. Con l’accordo, il costo per le due tipologie di debito sarà pressoché simbolico fino al 2024 e dal 2025 sarà di circa 10 miliardi di dollari annui.
L’Argentina ha già fatto sapere di non essere in grado di onorare il debito con l’Fmi per le scadenze previste dal 2021 al 2023. Bisognerà quindi rinegoziare il debito sia con il Fondo monetario che con il Club di Parigi.
Intanto, il governo dovrà porre le basi affinché dal 2025 in poi il paese sia in grado di onorare le scadenze del debito. Ma l’acutizzarsi della crisi economica legata al coronavirus rischia di vanificare gli effetti positivi dell’accordo.
Viste le premesse è difficile immaginare che questo sia l’ultimo default argentino. Difficile anche pensare che sia in generale l’ultimo default del 2020. Quest’anno Ecuador e Libano hanno già dichiarato bancarotta, mentre altri paesi stanno cercando di far fronte al devastante impatto del Covid-19.
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