Il nuovo contratto dei rider non è certo un modello standard europeo. Però costituisce un punto di partenza, seppure da migliorare, in una logica negoziale pluralista. E nella regolamentazione del lavoro nelle piattaforme l’unica via è quella sperimentale.

Il nuovo contratto e la polemica ministeriale

Persino un legislatore che aveva scoperto il fascino discreto di regolare la “dignità” per legge alla fine ha deciso che il modo migliore per tutelare i lavoratori delle piattaforme del food delivery fosse affidarsi alla contrattazione collettiva. La legge n. 128/2019, di conversione del decreto n. 101, ha introdotto una tutela specifica per i rider (capo V bis), ma con la tecnica, tradizionalmente italiana, della regolamentazione tramite rinvio alla contrattazione collettiva dei sindacati comparativamente più rappresentativi. La legge ha imposto, pure, alla contrattazione collettiva tempi stretti di intervento. Incombe, infatti, la spada di Damocle del secondo comma dell’art. 47-quater: in mancanza di contrattazione collettiva specifica, si applica “la tariffa” del contratto affine dei lavoratori subordinati, vale a dire il Ccnl della logistica-trasporto merci-spedizioni.

In questa intercapedine, aperta dal legislatore, si è inserito il contratto AssoDelivery/Ugl che, pur muovendosi pedissequamente nel solco tracciato dalla legge, ha sollevato aspre polemiche, concretizzatesi nella certamente inusuale nota ministeriale che fa “le pulci” all’accordo (si veda l’articolo di Pietro Ichino). Si contesta, sostanzialmente, la natura “pirata” dell’accordo, in ragione della qualità dei soggetti contraenti e dei contenuti, soprattutto per quanto riguarda la remunerazione minima.

La polemica è sopra le righe. Non si tratta di un contratto pirata perché non esiste un altro contratto di riferimento, per cui quello AssoDelivery/Ugl, in questo momento, è il contratto leader per mancanza di concorrenti. La Ugl è certamente un sindacato di destra, ma non è, tecnicamente, un sindacato “di comodo”, cioè direttamente finanziato o promosso dai datori di lavoro (anche se è vero che la Ugl ha assorbito i rider iscritti a una precedente associazione “di mestiere”, Anar, la quale, invece, secondo alcune inchieste giornalistiche, si riteneva in odore di essere costituita su interessamento o iniziativa datoriale). La Ugl non può, comunque, dirsi comparativamente meno rappresentativa dei sindacati confederali, che, nel settore, non sembra abbiano certificato iscritti. Contrariamente a quanto affermato nella lettera del ministero del Lavoro, il criterio della rappresentatività comparata non presuppone neppure una maggioranza, o una pluralità, di sigle; anzi secondo la sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale è sufficiente partecipare al negoziato per essere in sé rappresentativi. Pensare, infine, che sia illegittimo l’esercizio della libertà negoziale solo perché si stipula in anticipo rispetto a tempi attesi, o perché tatticamente l’associazione datoriale ha scelto un partner sindacale diverso da quello preferito dal governo, significherebbe mettere in discussione uno dei principi cardine su cui si fonda, come insegnava Gino Giugni, il nostro sistema di relazioni sindacali: il principio del libero riconoscimento dell’interlocutore.

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Sul versante datoriale la rappresentatività di AssoDelivery è indiscutibile. Si tratta di una associazione/cartello delle maggiori piattaforme di food delivery operanti in Italia; mette insieme quelle che si erano affidate ad aziende terze nella gestione della manodopera – e che sono incappate nelle indagini dei procuratori di Milano per il reato di caporalato (come Uber Eats, ma lo stesso modello di business era stato scelto pure da Just Eat); e quelle che, come Glovo e Deliveroo, avevano puntato invece sulla massimizzazione della parcellizzazione dei compiti dei rider, incarnata dal compenso a consegna senza previsione di un minimo di remunerazione. Scelte gestionali discutibili, ma che ora il contratto AssoDelivery (grazie anche all’impulso legislativo) in qualche misura rinnega, pur con soluzioni sicuramente migliorabili.

Come misurare l’effettiva rappresentatività?

Semmai, sotto il profilo della rappresentanza e della rappresentatività degli attori, la vicenda dimostra, una volta di più, l’esigenza di affrontare il problema della misurazione della rappresentatività effettiva, anche di fronte alle indubbie difficoltà di individuare una fonte adeguata per le operazioni di delimitazione del perimetro di misurazione

Il problema di misurare il grado di rappresentatività dei sindacati attraverso una certificazione pubblica del numero degli iscritti o dei voti ottenuti in elezioni sindacali o del numero dei dipendenti delle imprese associate o del loro fatturato, nel caso delle associazioni datoriali, è già stato risolto in altri sistemi in cui la libertà negoziale e il pluralismo sindacale sono certamente garantiti quanto e come in Italia. È avvenuto in paesi come la Francia o la Spagna, ove esistono meccanismi amministrativi, previsti dalla legge, mediante i quali si certificano i dati di ogni associazione allo scopo di determinare chi è rappresentativo e chi no; e chi lo è più di un altro, se la legge impone di selezionare. Si individuano anche, a tale scopo, gli stessi perimetri di misurazione.

In Italia una legge di questo tipo è storicamente ostacolata dal rischio di un suo contrasto con la Costituzione (l’articolo 39), che prevede un sistema di rappresentanza sindacale categoriale, oggi inattuabile. Nulla esclude, però, che l’ostacolo possa essere superato mediante una interpretazione evoluta e aggiornata della Costituzione, adeguando la sua lettura alla nuova realtà sociale. Massimo D’Antona ci aveva provato poco prima di essere assassinato.

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Un contratto migliorabile

Quanto ai contenuti economici del contratto AssoDelivery/Ugl, per la prima volta in Italia stipulato anche in inglese, si attestano su valori da salario minimo legale più che contrattuale, ma si tratta di lavoratori autonomi riconosciuti tali per legge e dalla stessa giurisprudenza. Il limite minimo di 10 euro lordi è suscettibile di una valutazione al ribasso nel caso in cui il tempo stimato dalla piattaforma sia inferiore all’ora e certamente sarebbe stata meglio l’inderogabilità al ribasso dei dieci euro lordi per unità oraria, ma questo avrebbe contraddetto il sistema di retribuzione per consegna. Sono però previsti incentivi temporanei per nuove città e zone e sistemi premiali per i rider disponibili a fare di tale lavoro non un’occupazione occasionale, ma più stabile e duratura, in una logica, che non può essere esclusa a priori, di possibile riconoscimento professionale e di reale autonomia.

Sugli altri diritti ora previsti dalla legge (diritti sindacali, privacy, tutela contro gli infortuni e misure di sicurezza), il contratto si attesta sui minimi già riconosciuti e li specifica. Mancano, però, tutele di importanza primaria: ferie retribuite e congedi per malattia, ad esempio; non c’è alcun cenno al principio di giustificatezza nel recesso unilaterale della piattaforma; tutto il capitolo del welfare è rinviato, debolmente, a una promessa di bilateralismo e a una commissione paritetica, di là da venire.

Diverse lacune e difetti, dunque. Ma i contratti sono fatti per essere migliorati attraverso la normale logica negoziale. Nulla esclude, dunque, che malgrado le difficoltà di azione e di organizzazione dei lavoratori delle piattaforme del food, altri sindacati o la stessa capacità creativa di azione e autoorganizzazione dimostrata dai rider in importanti città europee (ad esempio, con l’ampio utilizzo dei social media, di piattaforme alternative di informazione e comunicazione, di forme nuove di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, come il flash mob, o addirittura di autogestione dell’attività mediante cooperative autonome) possa condurre a miglioramenti, in sede di contrattazione sia di settore, sia aziendale.

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