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Se 866 contratti collettivi di lavoro vi sembran pochi

In Italia la retribuzione è fissata da ben 866 contratti collettivi nazionali e nessuno controlla la rappresentatività dei firmatari. La radice del problema è nella Costituzione, ma c’è un modo semplice di risolverlo in un periodo di larghe intese.

Come risolvere il problema dei contratti collettivi “pirata”

Se vogliamo fare davvero qualcosa di utile per la protezione del lavoro, incominciamo dal problema più antico, irrisolto ormai da oltre settant’anni: quello dell’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali. E prima ancora, poiché oggi se ne contano ben 866, quello della selezione dei soggetti legittimati a stipularli.

Il problema nasce dal quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione, che non è stato mai attuato perché contiene un errore logico: impone la definizione per legge o atto amministrativo delle “categorie” nell’ambito delle quali misurare la rappresentatività dei sindacati, cosa incompatibile con la libertà sindacale sancita dal primo comma.

Pur restando inattuato, però, quel comma ha comunque l’effetto di impedire ogni soluzione legislativa diversa, bloccando il nostro sistema di relazioni sindacali e generando, nei decenni, uno stato di diffusa incertezza: una sorta di regime anarchico nel quale sono proliferati gli 866 contratti collettivi nazionali depositati al Cnel, tra i quali i datori di lavoro oggi possono scegliere quello da applicare come da un menù. Anche se, va detto, non tutti i contratti sono “pirata”: talvolta i frazionamenti di categorie sindacali (come è stato per esempio il caso dei piloti) nascono dall’esigenza di “avvicinare” il contratto al luogo di lavoro e alle sue caratteristiche particolari. Per togliere di mezzo quel comma sbagliato, occorre una legge costituzionale votata, in seconda lettura, da almeno i due terzi di ciascuna delle Camere. Il contesto politico attuale consente di farlo. Occorre però aver le idee chiare su come sostituire il quarto comma dell’articolo 39.

Dopo anni di discussioni e di lotte sindacali, a partire dal caso Fiat e dalla rottura dell’unità sindacale già in atto dal 2009 ma che in quel caso si aggravò, le maggiori confederazioni sindacali e associazioni imprenditoriali si sono dotate con il “Testo unico” del 2014 di regole molto ragionevoli, ispirate al principio democratico per cui a decidere, in materia contrattuale, deve essere chi rappresenta la maggioranza degli interessati. Quindi il contratto collettivo nazionale, per avere efficacia generale, deve essere stipulato da sindacati che accettino di sottoporsi alla misurazione della loro rappresentatività e risultino maggioritari. La parte imprenditoriale, di contro, secondo questo “ordinamento intersindacale” non è libera di stipulare con chi vuole, ma si obbliga a stipulare solo con il sindacato o la coalizione sindacale che, nell’ambito della categoria cui il contratto si riferisce, abbia una rappresentatività maggioritaria. Di più: per essere efficace nei confronti di tutta la categoria il contratto collettivo deve essere approvato dai lavoratori mediante un referendum. È quello che accade in questi giorni per il contratto collettivo dei metalmeccanici.

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Una mini-riforma costituzionale semplicissima

Il problema è che questo “ordinamento” si applica soltanto a chi volontariamente vi si assoggetti, aderendo agli accordi interconfederali da cui è nato il Testo unico del 2014. Chi lo rifiuta può dunque stipulare contratti collettivi concorrenti, che in molti casi producono un pesante effetto distorsivo sul mercato del lavoro: un vero e proprio dumping contrattuale, reso possibile dall’assenza di una legge che regoli la materia. D’altra parte, una legge ben fatta non può essere emanata per via della norma costituzionale che, pur inattuata, ha il potere di impedire qualsiasi soluzione diversa. Ora proprio il periodo di “larghe intese” potrebbe essere il più propizio per correggerla.

Si tratterebbe soltanto di sostituire il quarto comma dell’articolo 39 con il seguente: “La legge stabilisce i requisiti affinché il contratto collettivo sia efficace in tutta la categoria alla quale esso si riferisce”. Si eliminerebbe in questo modo il contrasto con il principio di libertà sindacale sancito dal primo comma: verrebbe infatti ribadito il principio per cui è il contratto collettivo a dar vita alla “categoria sindacale”, e non viceversa. La legge ordinaria, poi, potrebbe recepire le regole contenute nel Testo unico interconfederale del 2014, precisando che:

a) nel caso di conflitto fra due contratti collettivi riferiti alla stessa categoria, si applichi quello le cui associazioni firmatarie su entrambi i lati siano maggiormente rappresentative, secondo i criteri del Testo unico del 2014;

b) nel caso in cui, nell’ambito di una categoria per la quale è stato stipulato un contratto collettivo nazionale con efficacia generale, venga stipulato un nuovo contratto collettivo riferito a una categoria più ristretta, la verifica della maggiore rappresentatività, effettuata sempre secondo gli stessi criteri, deve essere riferita alle imprese e ai lavoratori appartenenti a quest’area.

Così, per esempio, se accadesse che nel settore del terziario – coperto da un contratto collettivo stipulato da Cgil, Cisl, Uil e Unione del commercio, sicuramente maggioritarie nel settore – venisse stipulato un contratto collettivo nazionale riferito a un’area più ridotta, quale potrebbe essere quella della sola grande distribuzione, la verifica della maggiore rappresentatività dovrebbe essere effettuata in riferimento a questa “categoria”, individuata dal nuovo contratto.

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Un rapporto meglio definito tra legge e contrattazione collettiva

L’applicazione di questa regola consentirebbe di risolvere un altro problema cruciale: quello dei rinvii – oggi frequentissimi – della legge alla contrattazione collettiva in funzione integrativa o derogatoria. Sono sempre più numerose le norme che abilitano la contrattazione sindacale a disciplinare, anche in deroga alla legge, aspetti cruciali della disciplina del rapporto di lavoro. È quello che è successo, per esempio, nel recente caso del contratto collettivo nazionale dei ciclofattorini che eseguono consegne a domicilio attraverso piattaforma digitale, dove il contratto stipulato dal sindacato maggiormente rappresentativo in quel settore specifico ha determinato lo standard retributivo minimo sfruttando una possibilità di deroga al criterio generale consentita dalla legge.

Stabilire per legge quale sindacato può negoziare contratti collettivi abilitati a dettare la disciplina del rapporto di lavoro addirittura in modo prevalente rispetto a quella legale renderebbe possibile anche dare piena attuazione alle indicazioni dell’Unione europea in materia di salario minimo, così come alla direttiva sul distacco transnazionale di lavoratori, salvaguardando il peculiare equilibrio tra legge e contrattazione collettiva, caratteristico del nostro sistema di relazioni industriali.

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  1. Savino

    Il diritto del lavoro dovrebbe essere una branca del diritto pubblico e non del diritto privato, per la rilevanza sociale che assume e per la garanzia della certezza del diritto. Dopo, sarebbe sufficiente la contrattazione di secondo livello più dettagliata nei diritti, nella sicurezza e nel welfare aziendale. Va abbandonato il retaggio del sindacato di massa, diventato appesantimento burocratico.

  2. La materia trattate è oggettivamente molto complessa. Non è un caso che la norma costituzionale non si sia attuata, se non in forma indiretta.
    Gli accordi interconfederali in materia misurano la rappresentatività all’interno delle proprie organizzazioni (comparativamente più rappresentative). Nel pubblico impiego invece tutti i sindacati partecipano liberamente alla competizione elettorale e, a definire la legittimità della firma, sono le liste che abbiano raggiunto la maggioranza dei voti e con una misurazione parallela degli iscritti.
    La forte terziarizzazione dell’economia pone un problema di diritto non marginale.
    Se la presenza dei sindacati è molto scarsa in un settore, costoro potrebbero essere legittimati a firmare un ccnl valevole per tutto il settore, trasformandolo in erga omnes?
    Bene fa Valente a individuare una procedura di misurazione per comparto, all’interno di un settore ma, prima qualcuno dovrebbe definire il settore, cosa alquanto ardua merceologicamente e socialmente.
    Forse una strada da approfondire potrebbe essere l’elezione periodica dei sindacati in ambito nazionale e con la forma proporzionale. La compagine che raccoglie almeno la maggioranza dei voti sarebbe legittimato alla negoziazione e alla trasformazione in legge del ccnl. Il secondo livello (az. o territoriale) verrebbe regolato dal primo.

  3. Barbara grandi

    Proposta interessante; anche l idea di delineare l ambito contrattuale con riferimento Al settore invece che alla categoria …. !

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