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Una “Comunità di conoscenza e innovazione” per lo sviluppo

L’Italia è un paese geograficamente eterogeneo. I progetti per la crescita nell’ambito del NextEU Fund dovranno perciò valorizzare i motori di sviluppo locale. Il loro disegno può ispirarsi al modello delle Comunità di conoscenza e innovazione.

Cosa sono le Cci e come funzionano

Per l’utilizzo dei NextEU Fund è il momento di passare dalle linee guida ai progetti concreti. Nel disegnare piani che siano favorevolmente recepiti a livello europeo, occorre utilizzare un modus operandi simile a quello che già oggi esiste all’interno dell’Unione. L’Italia è un paese geograficamente eterogeneo ed è impossibile progettare iniziative di sviluppo che si adattino sia alla Puglia che alla Lombardia, all’Emilia e alla Campania. I progetti per la crescita dovranno valorizzare i motori di sviluppo locale. In quest’ottica, l’Italia dovrebbe ispirarsi al modello delle Knwoledge and Innovation Communities promosse dalla Comunità europea attraverso l’European Institute of Innovation and Technology.

Le Comunità di conoscenza e innovazione (Cci) sono luoghi fisici e virtuali per promuovere a livello locale la collaborazione tra l’elica università-industria-stato e i corpi intermedi tipici di ciascun territorio (fondazioni bancarie, associazioni datoriali, sindacali, ordini professionali).

Le linee d’intervento di una Cci sono sostanzialmente tre: formazione, ricerca applicata e supporto all’innovazione. La formazione dovrà essere sia accademica che professionalizzante e ispirata all’innalzamento e recupero (upskilling e reskilling) delle conoscenze proprie di un territorio e della sua specializzazione produttiva. La ricerca applicata, a sua volta, dovrà convergere su settori e aree economiche ben identificate. Il supporto all’innovazione avverrà a valle della ricerca e si caratterizzerà per la realizzazione di prototipi industriali e l’incubazione di start up coerenti con i temi della Cci. Il coinvolgimento delle associazioni imprenditoriali locali e degli ordini professionali faciliterà la creazione della comunità, così come il coinvolgimento della società civile attraverso mostre, musei tecnologici, parchi di intrattenimento scientifico-tecnologico e altri ancora.

Un modello utile per i problemi strutturali del paese

Il modello di Cci permetterà di affrontare tre problemi strutturali dell’Italia. Innanzitutto, la mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro. Secondo le stime elaborate dall’Ocse, l’Italia è al primo posto per distanza tra competenze necessarie alle imprese e caratteristiche dei lavoratori in cerca di lavoro. Stime recenti di Confindustria prevedono, per i prossimi cinque anni, una domanda di quasi 300 mila figure professionalizzate necessarie affinché l’Italia si confermi il secondo paese manifatturiero d’Europa.

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Il secondo problema strutturale è la transizione scuola lavoro. In Italia i tempi di passaggio da un diploma superiore o universitario al mondo del lavoro sono tra i più alti in Europa, paragonabili solo a quelli della Grecia.

Il terzo problema è il trasferimento tecnologico dalle conoscenze universitarie alla produzione industriale. Le tante piccole e medie imprese che compongono il tessuto imprenditoriale nazionale sono infatti troppo piccole e prive di risorse per sviluppare competenze interne.

L’offerta italiana degli istituti tecnici superiori (Its) risulta insufficiente, con solo 13 mila ragazzi iscritti. Un paese come la Germania vede invece più di 800 mila studenti nelle proprie scuole di scienza applicata (Fachhochschule). All’Italia manca poi il 15 per cento di laureati rispetto alla media europea, a parità di età anagrafica. Tutto ciò, nonostante si stiano incrementando il supporto alle fondazioni Its e si sia aperta la possibilità per le università di erogare lauree professionalizzanti triennali.

La co-progettazione, la governance e i bandi

Un elemento che contraddistinguerà le Cci sarà la co-progettazione delle sue iniziative, in tutte le sue aree di intervento. I diversi attori parteciperanno a un processo di costruzione partecipata dello sviluppo locale. Ad esempio, nella formazione, le Cci potranno generare collaborazioni tra fondazioni, Its e università. L’idea è coniugare le competenze dei tecnici delle fondazioni Its – conoscitori delle dinamiche aziendali e della realtà locale – con quelle dei ricercatori e docenti universitari, a contatto con conoscenze tecnologiche più avanzate. Nella ricerca applicata, la collaborazione tra università e realtà industriale in fase di progettazione dei bandi farà emergere progetti coerenti con la realtà industriale locale e la sua disponibilità di capitale umano.

La governance delle Cci dovrà ispirarsi a quelle delle Knowledge Communities europee. Una Cci sarà un soggetto giuridicamente autonomo associato a una serie di partner fondatori rappresentati da istituzioni accademiche, di ricerca e società industriali. I vertici saranno rappresentati da un consiglio direttivo (governing body) e da un comitato esecutivo. La nomina del consiglio direttivo sarà regolata dagli accordi statutari tra i partner e supervisionata dal ministero dell’Economia. Il consiglio direttivo (i cui membri restano in carica 4 anni non rinnovabili) nominerà poi un comitato esecutivo che gestirà gli affari correnti delle Cci.

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Gli enti locali non dovrebbero far parte dei partner fondatori. Questa peculiarità le distinguerebbe pertanto dai patti territoriali, un modello di sviluppo locale provato più volte nel Mezzogiorno d’Italia. La selezione delle Cci dovrebbe avvenire con un bando dello stato, meglio se supervisionato da due ministeri.

I rischi da evitare

Alla luce dell’eterogeneità della specializzazione produttiva italiana e la distribuzione trasversale delle università, diverse realtà potranno candidarsi alla progettazione di Cci. Nel suo disegno si dovrà prevedere un cofinanziamento locale, come la stessa Unione europea già richiede nel programma Horizon Europe. Indirizzare in questa direzione risorse del NextEu Fund sarà verosimilmente ben recepito a livello europeo, se sapremo evitare alcuni tipici problemi italiani.

Un primo rischio da scongiurare è quello di avere una Cci in ogni regione e in ogni provincia. Si dovrà saper scegliere e dare priorità ad alcune grandi Cci, tenendo ovviamente conto delle difficoltà di larga parte del Mezzogiorno. Il secondo rischio è quello della dipendenza dai sussidi. Le risorse europee a disposizione saranno temporanee. Nel delineare queste comunità occorrerà pertanto presentare business plan che prevedano, a regime, la loro autosufficienza finanziaria.

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  1. Savino

    NextEU è per i giovani, per le competenze, per chi si applica negli studi e nella ricerca. Gli italiani adulti dovrebbero avere la decenza di chiamarsi fuori da queste risorse finanziarie, poichè nessuno degli italiani adulti è in grado di insegnare qualcosa in termini di produttività e l’evanescenza dello smart working ce lo sta facendo capire. Per gli italiani adulti la giornata di lavoro nasce e finisce col rito mattutino di cappuccino e brioche. Dopo resta il vuoto che insegnano di praticare ai loro figli.

  2. bob

    “L’Italia è un paese geograficamente eterogeneo ed è impossibile progettare iniziative di sviluppo che si adattino sia alla Puglia che alla Lombardia, all’Emilia e alla Campania”
    Io per esperienza di lavoro sul campo la penso esattamente al contrario. Non si spiega e non spiegate perchè un modello di sviluppo è diverso tra Lombardia e Puglia ( siamo un Paese che è un soldo di cacio) . Questo Paese ( studiamo la Storia come dice Sapelli) ha dato il meglio di se ( pur con tutte le contraddizioni e gli errori) dal dopoguerra alla fine degli anni ’60. parliamo di un periodo dove una guerra. aveva distrutto tutto. Ma il Paese e i Politici del tempo hanno agito e ragionato per il sistema – Paese. Forse sarebbe da ricominciare a parlare di distretti industriali ( giacomo becattini) e non di spassosi, variopinti personaggi che si atteggiano a ” Governatori” .
    Tranquilli le cose non le sistemeremo noi ( come la Storia ulteriormente ci insegna) ma le sistemerà Lo Straniero di cinquecentesca memoria

  3. Giuseppe Cusin

    D’accordo sulla premessa: l’Italia è un paese eterogeneo. Vi sono due problemi: (1) con quali criteri stabilire un ordine di priorità fra le zone da privilegiare, (2) individuate le zone dove intervenire, come scegliere i problemi ai quali dare la precedenza. In ogni caso sarebbe utile illustrare la strategia proposta con un esempio concreto e dettagliato sui costi e sui tempi per la realizzazione, ossia con l’esempio di un progetto da presentare all’UE. Il problema può essere posto anche in modo diverso: individuare i principali problemi che bloccano la crescita dell’Italia, indicando un ordine di priorità. A mio avviso vi sono quattro aree sulle quali intervenire: (1) istruzione, in particolare le università, (2) sanità pubblica, (3) la difesa del territorio (protezione da alluvioni, terremoti, ecc.) e (4) infrastrutture, in particolare al Sud, dove ancora si attendono le ferrovie promesse da Garibaldi. I progetti dovrebbero essere scelti tenendo conto che molti investimenti pubblici si autofinanziano (ad esempio quelli riguardanti la difesa del territorio).

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