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Accoglienza: quando la realtà smentisce le narrazioni

Il sistema Sprar è spesso definito una buona pratica, ma i fatti smorzano l’ottimismo. Questa politica non sembra rispondere alle logiche di un’accoglienza che dia benefici ai rifugiati e alla comunità. Manca una sistematica valutazione dei risultati.

I sistemi di accoglienza dell’Italia

Tra il 2014 e il 2018, l’Italia ha ospitato in media 142 mila richiedenti asilo e rifugiati all’anno, suddivisi fra soccorso, prima e seconda accoglienza. Dal 2018, quest’ultima si attua attraverso il sistema Siproimi-Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, benché nel linguaggio comune sia rimasto il precedente nome Sprar-Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Con il decreto Salvini (Dl 4 ottobre 2018, n. 113) la seconda accoglienza si rivolge quasi esclusivamente a chi ha già ottenuto lo status di rifugiato, escludendo i richiedenti asilo.

In ogni caso, in una sorta di “imbuto” dell’accoglienza, tra il 2016 e il 2017, per ogni beneficiario Sprar, sei migranti erano accolti nei centri di accoglienza straordinaria (Cas), o in altri centri.

Lo Sprar offre, per 6-18 mesi, non solo vitto e alloggio, ma anche servizi di integrazione: supporto psicologico, formazione, inserimento sociale e lavorativo. Gli enti locali, finanziati al 95 per cento dallo stato centrale, possono presentare un progetto al ministero dell’Interno, decidendone i numeri e gli standard di servizio, così come la spesa per persona accolta. La volontarietà del progetto dovrebbe garantire rispondenza tra le capacità di accogliere del territorio e il numero di persone accolte.

Figura 1 – I comuni (in forma singola o associata) che hanno attivato un progetto Sprar tra il 2011 e il 2017

Fonte: rielaborazione dati ministero dell’Interno.

Lo Sprar è definito un metodo di accoglienza diffusa, poiché i beneficiari sono suddivisi tra enti locali (795 nel 2020) e all’interno di comuni, solitamente in appartamenti.

La logica del sistema Sprar

Un sistema di accoglienza per i rifugiati dovrebbe rispondere a quattro logiche fondamentali.

1) Data la volontarietà dell’adesione da parte degli enti locali, l’accoglienza dovrebbe concentrarsi nei territori con un orientamento politico solidaristico e inclusivo.

2) Avendo come obiettivi autonomia e integrazione dei beneficiari, lo Sprar dovrebbe diffondersi nei territori con una più alta domanda di lavoro straniera, caratterizzati da un alto tasso di occupazione generale e un’alta incidenza di stranieri occupati.

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3) Lo Sprar dovrebbe convergere verso un modello di accoglienza nazionale omogeneo, che, comparando i diversi Sprar, conduca al mix di servizi più efficaci. Così facendo, si otterrebbe anche una maggiore omogeneità nella spesa giornaliera per assistito.

4) A garanzia del suo buon funzionamento, lo Sprar dovrebbe mirare all’equilibrio tra dispersione sul territorio e concentrazione. La prima, infatti, diluisce la presenza straniera ed evita le proteste Nimby (Not-In-My-Back-Yard). La seconda, invece, garantisce economie di scala nei servizi.

La realtà dei fatti

1) Quando si considerano variabili politiche, come l’orientamento politico e la vicinanza alla rielezione del sindaco, o economiche, come il tasso di occupazione straniera, si registrano risultati statisticamente significativi soltanto nei comuni del Nord.

2) Lo Sprar è relativamente più diffuso proprio nelle regioni più povere. Infatti, in forma singola o associata, il 20 per cento dei comuni del Sud ospita uno Sprar contro il 9 per cento di quelli del Nord.

Al Sud, la scelta di accogliere tramite lo Sprar non sembrerebbe dipendere dalla domanda di popolazione giovane e dal potenziale di inserimento sociale, quanto piuttosto dalla necessità di ricevere fondi statali da convogliare sul territorio. Se alcune realtà positive, come Riace, hanno utilizzato i fondi a beneficio delle comunità, c’è il rischio concreto che per altri lo Sprar diventi un modo facile di finanziare il terzo settore, senza però avere i “fondamentali” alla base dell’accoglienza: capacità di integrazione, necessità di manodopera, professionalità, strutture.

3) Il livello dei servizi varia sia tra regioni, sia all’interno delle stesse regioni. La mancanza di una sistematica valutazione d’impatto rende impossibile definire quale sia la migliore combinazione di servizi. Invece, i comuni più poveri accolgono relativamente più beneficiari offrendo meno servizi, mentre i comuni più ricchi accolgono meno, ma con standard più elevati. Dato il finanziamento nazionale, gli standard di servizio dipendendo esclusivamente dal capitale istituzionale e amministrativo, iniquamente distribuito nel nostro paese.

4) Le scelte di concentrazione sul territorio sembrano dettate dalla “casuale” disponibilità di immobili piuttosto che da considerazioni progettuali. Eppure, il modello disperso risulta meno osteggiato dai residenti e più adatto a favorire l’autonomia-attivazione dei beneficiari, contrariamente ai servizi passivizzanti dei grandi centri.

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Misure urgenti e necessarie

Il sistema Sprar è spesso definito una buona pratica, ma le evidenze raccolte non giustificano l’ottimismo. Risulta innanzitutto necessaria una sistematica valutazione dei risultati, per la quale la disponibilità di dati pubblici sull’accoglienza, non solo Sprar, è indispensabile. Occorrerebbe anche valutare gli esiti socio-occupazionali degli accolti, confrontando i servizi erogati, e quindi la spesa, con i risultati raggiunti.

Occorrerebbe, inoltre, identificare uno standard nazionale costo-efficace per i progetti Sprar, in termini di servizi erogati e di scelte di alloggio. Le autorità locali dovrebbero quindi ricevere fondi sulla base della corrispondenza del loro progetto allo standard nazionale, riducendo i differenziali di spesa per beneficiario alla sola differenza nel costo della vita. Il servizio centrale Sprar-Siproimi dovrebbe diventare una piattaforma di knowledge sharing per gli enti locali, che includa formazione, benchmarking e apprendimento interistituzionale.

Infine, le autorità nazionali dovrebbero attivamente incentivare i territori a entrare nella rete dell’accoglienza, a reciproco vantaggio delle comunità locali e dei profughi. Una sistematica valutazione dei risultati dello Sprar permetterebbe anche di comprendere se indirizzarli verso territori dove è più forte il “deserto demografico” oppure in quelli dove è più rilevante la domanda di manodopera. La geografia attuale degli Sprar ne risulterebbe significativamente modificata, sia per luoghi, sia per numerosità relative.

Le modifiche previste dal nuovo decreto immigrazione includono nuovamente nello Sprar i richiedenti asilo e cancellano altre norme del decreto Salvini. Eppure, rendere visibili i risultati dei progetti di integrazione permetterebbe di riportare il dibattito sul “se” e sul “come” gestire l’accoglienza dei profughi, per ripensare lo Sprar secondo le logiche più adeguate.

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  1. Mahmood

    Della logica SPRAR mi sembra da sempre tralasciata una seria analisi dei risultati generali, a parte le fazioni pro e contro che si schierano per partito preso. Aggiungo che spesso sento intendere (anche qui) che progetti come quello di Riace sarebbero un impiego positivo di denaro in senso assoluto. Lo SPRAR costa. Vero che al migrante arriva solo la “pocket money” dei famosi 35 euro al giorno necessari per sovvenzionare il sistema, mentre il resto lo riceve in beni e servizi, però mi sembra evidente che un borgo stipato di soggetti che portano 35 euro al giorno, i.e. oltre mille euro netti a testa al mese di finanziamento pubblico extra, si ripopoli e migliori la propria economia. Il problema è che le municipalità del sud con analoghi stanziamenti (4mila euro al mese per ogni famiglia di 4 persone) o anche con molto meno non si sarebbero mai svuotate in prima istanza di cittadini italiani. Che invece pagano questo ripopolamento straniero. Bizzarro mondo il nostro.

    • silvano lombardo

      Condivido pienamente questo commento soprattutto nel riferimento a Riace. In questo comune non c’è stato nessun miracolo di integrazione e di ripresa demografica in quanto le stesse misure , applicate in altri comuni di aree marginali , avrebbero avuto lo stesso effetto nel contrastare lo spopolamento.Tutto questo si chiama assistenzialismo.

  2. Giuseppe GB Cattaneo

    Che dire, cascano le braccia

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