Anziché congelare le eccedenze di forza-lavoro in attesa che ciascuna azienda possa riassorbire la propria, andrebbe sostenuta la transizione dalle aziende in crisi a quelle che cercano manodopera e non la trovano. Che sono più di quante si pensi.
Un “contratto di solidarietà” nazionale?
Proroga del blocco dei licenziamenti addirittura per un triennio, a fronte del rinvio per lo stesso periodo del rinnovo dei contratti coi relativi aumenti retributivi. Lo scambio proposto dal segretario della Uilm Rocco Palombella a governo e Confindustria è una sorta di grande “contratto di solidarietà” di livello nazionale: accettiamo di essere pagati di meno, pur di salvaguardare gli attuali livelli occupazionali. La proposta si fonda sull’idea che in questo momento le possibilità di ricollocazione delle persone che altrimenti perderebbero il posto siano pressoché nulle e che invece, superata la fase attuale di crisi economica acuta, ciascuna impresa potrà riassorbire gradualmente la propria eccedenza di manodopera.
L’intendimento del progetto è apprezzabile, ma le due premesse su cui esso si fonda – per quanto largamente condivise dall’opinione pubblica – non corrispondono alla situazione effettiva e alle prospettive del nostro tessuto produttivo. Va detto, innanzitutto, che a fronte dei settori flagellati dallo tsunami della pandemia ci sono settori che invece non ne sono stati colpiti e altri che addirittura hanno registrato forti aumenti della domanda e stentano a trovare le persone di cui avrebbero bisogno: il bollettino Unioncamere di ottobre 2020 ci informa puntualmente delle difficoltà di reperimento di personale specializzato – qualificato e anche non qualificato – che si incontrano soprattutto nei settori dei servizi informatici, dei servizi medico-sanitari, di quelli alle famiglie e alle comunità locali, dei servizi logistici e delle consegne a domicilio, dei servizi di installazione e manutenzione, della certificazione e controllo di qualità, della ricerca e sviluppo, della sicurezza e della tutela ambientale, nonché in quasi tutti i settori dell’artigianato, dall’alimentare alla sartoria fino ai servizi alla persona di vario genere. La tabella che segue indica, per le qualifiche più richieste, in 763 mila le assunzioni previste nel trimestre ottobre-dicembre 2020, con la previsione di difficoltà di reperimento in un caso su tre (32,5 per cento).
Il paradosso della compresenza di alta disoccupazione e skill shortage
La realtà è che il tessuto produttivo italiano è da tempo afflitto, in molti settori e a tutti i livelli professionali, da diffuse situazioni di skill shortage. Subito prima dello scoppio della pandemia, Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) e Unioncamere registravano circa 1,2 milioni posti di lavoro permanentemente scoperti per la difficoltà di trovare la manodopera qualificata o specializzata necessaria; se anche un quarto o un quinto di queste opportunità si sono perse per effetto della crisi attuale (in proporzione con la contrazione generale della produzione), ci sono comunque ancora nelle nostre imprese molte centinaia di migliaia di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti.
Per il rilancio della nostra economia, dunque, la ricetta non può essere quella di congelare la situazione occupazionale attuale, tenendo in letargo la forza-lavoro eccedentaria, nella speranza che nel giro di qualche anno essa venga riassorbita nelle stesse aziende in cui l’eccedenza si è verificata, bensì occorre attivare il più possibile il trasferimento delle persone dai settori colpiti dalla crisi a quelli che non ne sono colpiti o addirittura ne sono avvantaggiati. E comunque attivare i percorsi necessari per indirizzare subito efficacemente ciascuna persona in cerca di lavoro verso la situazione di skill shortage geograficamente e professionalmente più accessibile.
Protrarre il divieto dei licenziamenti tenendo le persone in cassa integrazione sine die – poiché di questo si tratterebbe necessariamente, col protrarsi del blocco – significherebbe invece condannare le persone stesse a un periodo lunghissimo di sostanziale disoccupazione, con deterioramento progressivo della loro employability: è noto infatti che, a parità di altre condizioni, quanto più dura il periodo di inattività tanto più è difficile trovare un nuovo lavoro. Significherebbe inoltre aumentare la vischiosità dell’intero mercato del lavoro, riducendo la propensione delle imprese ad assumere – e quindi anche la mobilità interaziendale – e scoraggiando la ricerca del nuovo posto di lavoro anche nei casi in cui essa può dare rapidamente un esito positivo. La Cassa integrazione (che inevitabilmente dovrebbe accompagnare il blocco dei licenziamenti) non è fatta per attivare le persone nella ricerca, ma al contrario per tenerle legate all’azienda di origine.
Il nodo dei servizi che non funzionano
Mantenere in Cig un milione di persone – quante potrebbero oggi essere interessate dai licenziamenti nel caso di cessazione del blocco, secondo le stime correnti – costa all’erario poco meno di un miliardo al mese subito (l’importo mensile medio dell’integrazione salariale è oggi di 851 euro), più il valore futuro della pensione corrispondente alla contribuzione figurativa per tutto il periodo di integrazione salariale (circa il 32 per cento della retribuzione reale). Dunque per “mettere in letargo” un milione di persone, assicurando loro un sostegno del reddito medio di circa mille euro al mese, spenderemmo intorno ai 15 miliardi l’anno. La domanda è se non sarebbe meglio usare questi soldi per un robusto investimento sui percorsi utili per mettere in comunicazione l’offerta con la domanda di lavoro esistente, coniugandolo con un rafforzamento del trattamento di disoccupazione (la cui durata potrebbe essere congruamente allungata in considerazione della situazione di grave crisi). In molti casi si tratterà di transizioni non facili, in alcuni casi sarà necessario anche un incentivo economico per favorire la nuova assunzione, ma sarà sempre meglio di un lunghissimo letargo senza speranza.
Vero è che il nostro Paese è oggi attrezzato malissimo per una scelta di questo genere. L’Anpal, cui competerebbe di promuovere e coordinare i servizi di informazione, formazione, orientamento scolastico e professionale e assistenza alla mobilità delle persone, nonché i servizi alle imprese che cercano personale, è da un anno e mezzo totalmente paralizzata a causa di un presidente che risiede (e mantiene il suo precedente lavoro) nel Mississippi e che nei rari casi in cui governo e parlamento hanno potuto interloquire con lui ha mostrato di avere idee molto confuse sui problemi del mercato del lavoro italiano, in particolare su quelli dell’ente da lui stesso presieduto. Colpisce, però, che le grandi confederazioni sindacali, invece di protestare con forza, appaiano rassegnate alla paralisi pressoché totale di questo settore cruciale per l’amministrazione e per i servizi che essa dovrebbe assicurare. Cosicché finiscono col trarne motivo per rifugiarsi in proposte di politica del lavoro rinunciatarie e, in prospettiva, dannose per gli interessi che le confederazioni stesse dovrebbero difendere e promuovere: basti pensare alla sorte dei lavoratori “congelati” per anni quando, prima o poi, il blocco dei licenziamenti – e con esso il trattamento incondizionato di integrazione salariale – dovrà inevitabilmente cessare.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Savino
Anche lo smart working ha, sotto alcuni aspetti, lo stesso effetto negativo del blocco dei licenziamenti, poichè, come questi ultimi, preclude le nuove assunzioni. Non metti certo in smart working una persona assunta da poco tempo, ma lo fai solo per una che conosci bene e di cui puoi fidarti. Così il mondo del lavoro diventa autoreferenziale senza far passare alcuno spiffero per il ricambio d’aria.
Paolo Palazzi
A questa enorme (32%) carenza di offerta di lavoro ci dovrebbe naturalmente essere un altrettanto sensibile aumento delle retribuzioni di fatto effettive e proposte.
Siccome questo non avviene, forse il mercato non conosce la legge della domanda e offerta oppure nelle considerazioni dell’articolo c’è qualcosa che non quadra?
bob
“andrebbe sostenuta la transizione dalle aziende in crisi a quelle che cercano manodopera e non la trovano”
Ichino in un Paese moderno e direi “normale” una cosa del genere dovrebbe essere nella norma, nel quotidiano. Non considerato cosa straordinaria. Stessa cosa smart working . Negli USA le lobby sono rappresentate da multinazionali in questo Paese dal gestore del Bar dello Sport
Manuel
Nel testo si scrive:
“Subito prima dello scoppio della pandemia, Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) e Unioncamere registravano circa 1,2 milioni posti di lavoro permanentemente scoperti per la difficoltà di trovare la manodopera qualificata o specializzata necessaria”
Da HR Specialist non posso che far notare che nel link presente si racconta un’altra storia:
“4.553.980 x 26.3% = 1.197.696 posti di lavoro che restano scoperti per difficoltà di reperire la persona adatta.
Le hard to fill vacancies sono più di un milione!”
Ma il difficile reperimento non equivale a non trovare il profilo ricercato… senza specificare, poi, cosa voglia dire “difficile reperimento”. Giorni? Settimane? Mesi? E quanti di questi sono inadeguati per questioni legate alla Ral? Ah, saperlo…
Enrico D'Elia
Se il problema è davvero il mismatch, non vedo perché Confindustria non organizzi un sistema di condivisione dei lavoratori tra imprese dello stesso territorio. Potrebbero sfruttare il vecchissimo strumento della “missione” senza bisogno di scomodare Inps, parlamento e sindacati per nuove leggi e accordi. In realtà i dati Excelsior non hanno mai fornito un quadro realistico della domanda di lavoro effettiva e lo dimostra proprio quanto osserva Palazzi: in qualsiasi mercato simili baratri tra domanda e offerta si colmano aumentando i prezzi (in questo caso i salari) … e questo non sembra avvenire da diversi decenni.
Savino
Ormai il lavoro è così merce rara che chi ne è privo accetta qualsiasi condizione salariale al ribasso, quindi questo è un tipo di mercato particolare in cui la rarità dell’offerta (che è un’offerta col “coltello dalla parte del manico”, a differenza di altri mercati in cui il prezzo lo fa la domanda) genera una diminuzione del “prezzo” salariale. Il resto lo fanno la presenza del reddito di cittadinanza e una quantificazione sfasata statisticamente della platea che forma la domanda (cosa vuol dire non inserire gli scoraggiati tra i disoccupati? cosa vuol dire non inserire gli studenti dei licei e dell’università tra coloro che sono nella popolazione lavorativamente attiva?), che droga il mercato del lavoro effettivo.
Stefano La Porta
“Attivare il più possibile il trasferimento delle persone dai settori colpiti dalla crisi a quelli che non ne sono colpiti o addirittura ne sono avvantaggiati” comporta percorsi di mobilità geografica e professionale.
Ci sono alcuni problemi pratici.
Innanzi la mobilità professionale. Se è possibile che un ingegnere o professione assimilata, un professore di scuola, un tecnico informatico possano trovare un’altra occupazione, temo che un addetto alle pulizie, un conduttore di veicoli o un operaio addetto all’assemblaggio abbiano in questo più difficoltà dei primi. Questa soluzione quindi favorirebbe solo alcuni e creerebbe grandi problemi ad altri.
Per quanto riguarda la mobilità geografica, essa comporta una riduzione del reddito netto disponibile, per via di spese di viaggio e affitti in precedenza inesistenti. Per i redditi bassi sarebbe un ostacolo insormontabile.
Inoltre, non pare che le agenzie del lavoro o gli uffici di collocamento siano pronti per far incontrare domanda e offerta di lavoro su un vasto territorio, come ammette lo stesso autore. Occorrerebbero anni per rifondare il settore e mettere in moto un ciclo virtuoso.
Per finire, come sarebbe il contratto del lavoratore migrato in un settore non colpito dalla crisi? A prescindere dall’aspetto economico (e su questo ribadisco i miei dubbi) perderebbe la tutela dell’articolo 18, almeno il vecchio assunto. Ma su questo, mi rendo conto, è un’altra discussione.