Il Piano italiano per il Next-Generation EU dedica 4,2 miliardi a iniziative volte alla parità di genere. È una somma sufficiente? Solo per aumentare l’offerta di asili nido servirebbe uno sforzo maggiore, che però sarebbe ampiamente ripagato.
Risorse per la parità
Su lavoce sono stati discussi vari aspetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che descrive il modo in cui verranno utilizzati i fondi messi a disposizione dell’Italia dal Next-Generation Eu fino al 2026. Il Piano si articola su quattro linee guida e sei missioni, suddivise al loro interno in aree di intervento. Per ognuna di queste viene indicata una quota sul totale delle risorse.
Alla quinta missione “Parità di genere, coesione sociale e territoriale” sono destinati 17,1 miliardi, di cui solo 4,2 riservati in modo specifico alle iniziative per “parità di genere”: il resto è diviso fra le voci “giovani e politiche del lavoro”, “vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore” e “interventi speciali di coesione territoriale”.
4,2 miliardi non sarebbero una cifra modesta se la disparità di genere non fosse diventata in Italia un fenomeno così ampio. Negli ultimi decenni, nonostante i livelli di istruzione femminili abbiano sorpassato largamente quelli maschili, il capitale umano delle donne appare impegnato a sopperire alle carenze del welfare state ed è poco valorizzato nel mondo produttivo.
Anni di interventi non realizzati, non sperimentati ex ante, non mantenuti nel tempo hanno portato l’Italia in fondo alla classifica dell’uguaglianza di genere tra i paesi avanzati. Le donne italiane sono agli ultimi posti per tasso di occupazione, prime per carico di lavoro familiare (qui).
La situazione è peggiorata nel 2020 per effetto della pandemia, come lavoce.info ha documentato (qui e qui).
La pandemia ha infatti colpito più duramente le donne rispetto agli uomini. In particolare, perdita di lavoro e mancanza di opportunità si sono tradotte per la componente femminile in una forte uscita dalla partecipazione all’attività produttiva, mentre sulle sue spalle ricadeva il lavoro di cura dei figli piccoli e l’aiuto per la scuola a distanza dei più grandi, accentuando così le diseguaglianze di genere nel lavoro familiare.
Un recente lavoro confronta i dati di paesi simili e vicini, mostrando come la disuguaglianza in famiglia nella distribuzione dei carichi familiari in Italia fosse più forte prima della pandemia e sia stata più persistente durante il lockdown (qui).
Quali interventi privilegiare?
Ma quali potrebbero essere gli interventi efficaci per colmare le diseguaglianze tra uomini e donne in Italia? Nella bozza del Pnrr si punta innanzitutto a incoraggiare l’occupazione femminile attraverso investimenti per potenziare l’offerta di asili nido e di servizi per la cura degli anziani e dei portatori di handicap. È la conferma che per far crescere l’occupazione femminile le misure prioritarie riguardano il lavoro di cura, che è principalmente a carico delle donne.
È vero che la maggior parte di studi su dati italiani concordano sul fatto che uno sviluppo adeguato di asili nido (oggi la spesa pubblica in questo campo è solo lo 0,08 per cento del Pil, tra le più basse di Europa) rappresenti uno degli strumenti più importanti per sostenere il lavoro delle donne negli anni cruciali della maternità e per sostenere una natalità in declino (vedi il dossier de lavoce), ma il totale dei fondi indicati nel Piano è sufficiente per raggiungere il livello europeo? Secondo i dati e le stime contenute nell’ampio rapporto “Investire nell’infanzia: prendersi cura del futuro a partire dal presente” redatto dall’Alleanza per l’infanzia e dalla rete #educAzioni, la cifra complessiva proposta per ridurre le disparità di genere non basta per raggiungere il 33 per cento dell’obiettivo di Lisbona. Per garantire un posto al nido a un bambino su tre, con rette comparabili a quelle della scuola per l’infanzia, bisognerebbe investire 4,8 miliardi e poi spendere circa 4 miliardi l’anno per la gestione del servizio.
Come ricorda il rapporto, però, lo sforzo iniziale si ripagherebbe nel tempo con un circolo virtuoso. Infatti, si creerebbero nuovi posti di lavoro con un conseguente incremento delle entrate fiscali e una crescita dei consumi, il che porterebbe a un aumento del Pil. Se la percentuale di donne al lavoro arrivasse al 60 per cento, il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, secondo le stime di Banca d’Italia. Tra l’altro, una maggiore offerta di nidi incoraggerebbe le famiglie a fare figli e aumenterebbe il capitale cognitivo dei bambini con effetti di lungo periodo sui risultati scolastici negli anni seguenti e poi nel mercato del lavoro (qui).
Nel Pnrr non vengono specificati obiettivi di costi per le famiglie né parametri da utilizzare. Tuttavia, appare chiaro che servono molte più risorse per ridurre il divario di genere anche solo concentrandosi sull’offerta di asili nido. Ci vogliono interventi su vari ambiti e che durino nel tempo: più asili, ma anche congedi parentali meglio distribuiti, più opportunità di lavoro che incoraggino le donne e un sistema fiscale che non penalizzi il lavoro del “secondo” lavoratore in famiglia.
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Pippo Calogero
In altre parole l’autrice ci sta dicendo, facendo un rapido calcolo spannometrico, che in Italia ci sono oltre un milione di posti di lavoro vacanti che non vengono occupati dalle donne solo perché abbiamo pochi asili nido.
Se il raggiungimento del 60% di occupazione femminile farebbe salire il PIL del 7%, allora spendiamo i 4,8 miliardi per assumere donne a scavare buche e riempirle, così abbiamo risolto il problema. A me sembra che sia ormai diventata imperante una scuola di pensiero che inverte costantemente le cause con gli effetti, per cui siamo arrivati al paradosso per cui non è l’attività economica a generare posti di lavoro, ma sarebbero i posti di lavoro a generare attività economica. Che poi, a ben vedere, è la riproposizione del pensiero marxista secondo principi identitari invece che di classe.