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Fin troppa diligenza sulla sostenibilità delle società

Una proposta di direttiva europea introduce doveri di diligenza su ambiente e diritti umani applicabili sia alle società, sia ai loro amministratori, lungo l’intera catena del valore. Rischia di non essere ben calibrata nei contenuti e negli effetti.

La proposta di direttiva

Secondo l’Agenda Onu 2030, lo sviluppo sostenibile richiede di armonizzare crescita economica, inclusione sociale e tutela dell’ambiente. Ciò chiama non solo gli stati, ma anche le imprese a svolgere un ruolo fondamentale per realizzarne gli obiettivi.

L’Unione europea, dopo essersi mossa per spingere intermediari e investitori professionali a preferire le imprese che rispettano i fattori Esg (environmental, social, and corporate governance), è intervenuta nello scorso febbraio anche sotto il profilo della governance delle società con una proposta di direttiva della Commissione sulla Corporate Sustainability Due Diligence (2022/051(COD)).

La proposta riguarda direttamente soltanto le imprese di maggiori dimensioni, alle quali si chiede d’assicurarsi che anche i soggetti coinvolti stabilmente nei propri rapporti d’affari, incluse le Pmi, non commettano violazioni, dovendo esercitare un vero e proprio controllo sulla propria catena di valore.

Sono introdotti doveri di diligenza in materia di diritti umani e di ambiente applicabili sia alle società come tali, sia ai loro amministratori, che devono adempiere al loro dovere di agire nell’interesse superiore della società tenendo conto delle conseguenze in termini di sostenibilità delle decisioni gestionali.

Gli obblighi di diligenza si basano sull’individuazione degli impatti negativi sull’ambiente e sui diritti umani attraverso il richiamo a un gran numero di convenzioni internazionali enumerate in un allegato della proposta, che divengono così direttamente applicabili alle società.

Un’ampia parte della proposta è dedicata alla sua applicazione, affidata dal lato pubblico a un’ennesima autorità, con significativi poteri istruttori e sanzionatori, e dal lato privato agli stessi stakeholders esponendo la società e gli amministratori a un rilevante rischio di azioni risarcitorie.

I rischi e una possibile soluzione

La proposta suscita preoccupazione sotto quasi tutti questi profili: l’ambito di applicazione diretto e indiretto, troppo ampio, e che finisce per rendere particolarmente complesso il rispetto dei nuovi obblighi e per imporre oneri significativi anche alle Pmi; l’individuazione solo per relationem degli impatti negativi rispetto ai quali operano i doveri di diligenza; il sistema coercitivo e sanzionatorio, eccessivamente vasto e al tempo stesso incerto nei presupposti, che rischia di creare confusione e intralci all’economia, più che effetti concreti di sostenibilità.

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Si ha la sensazione, insomma, che, volendo intervenire subito su questioni giustamente avvertite come urgenti ed essenziali, la Commissione abbia elaborato una proposta eccessivamente ambiziosa, non ben calibrata nei contenuti e negli effetti.

È dunque auspicabile che Parlamento europeo e Consiglio non sottovalutino eccessi e conseguenze della proposta, ripensandone molte disposizioni. Per fare solo due esempi, sarebbe opportuno sia individuare direttamente gli impatti negativi che generano obblighi di sostenibilità, in modo da evitare che le società finiscano per restare prigioniere delle complicazioni e delle incertezze delle convenzioni internazionali, sia rivedere la disciplina in materia di catena di valore, per chiarirne la portata e ridurre oneri e responsabilità per le imprese a vario titolo interessate.

La sensazione è però che, per quanto importanti, questi interventi e in generale la mera revisione del testo non siano sufficienti.

La proposta che avanziamo è di rinunciare, in una prima fase, alle numerose norme della direttiva in materia di vigilanza, sanzioni, responsabilità, rinviandone l’applicazione per procedere con un periodo di applicazione che dia fiducia alle imprese e agli amministratori, nella consapevolezza di aver già fatto un passo avanti fondamentale nel porre e disciplinare i doveri di diligenza senza accontentarsi più della sola auto-disciplina, come si è fatto finora in molti stati membri e in particolare in Italia.

Lo stesso articolo 29 della proposta prevede del resto un riesame della direttiva dopo sette anni. Se non sette, se ne facciamo passare almeno tre per valutarne l’impatto e per prevedere su questa base le eventuali misure di enforcement che dovessero risultare davvero indispensabili.

Non è il momento, economico e geo-politico, per soluzioni avventate che potrebbero danneggiare l’economia e costringere poi a spiacevoli ripensamenti (come nel caso delle centrali a carbone). Si rischierebbe di compromettere il lungo e difficile percorso verso uno statuto organizzativo delle imprese che contribuisca efficacemente allo sviluppo sostenibile.

Un percorso ormai intrapreso e da salvaguardare con scelte ben ponderate.

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Il Punto

  1. Leonardo Bargigli

    Possiamo realmente permetterci il conservatorismo espresso dall’articolo, vista la necessità urgente di reindirizzare il sistema economico nella direzione della sostenibilità? Io non credo

  2. Questa normativa è in fieri dalla metà della anni ’90 quando furono rallentate le Draft Norms, trasformate poi nel 2011 in soft law con i Guiding Principles on Business and Human Rights di John Ruggie (UNGP). Poiché una normativa giuridicamente vincolante venne considerata prematura negli anni ‘90, le Nazioni Unite propesero per un cambio culturale (di mentalità) attraverso lo UN Global Compact e poi, appunto, l’approccio soft degli UNGP. Da lì poi alcuni paesi hanno adottato legislazioni di due diligence in maniera autonoma (es. Francia e recentemente c’è stata una evoluzione in Germania) mentre in altri paesi la due diligence c’è già su aspetti specifici (lavoro minorile in Olanda e California, schiavitù moderna in UK, minerali in USA, ecc). Questo per dire che il tempo per adattarsi e procedere ad un cambio culturale c’è stato, questa non è affatto una novità che arriva all’improvviso nel nostro paese. Inoltre, se siamo arrivati ad una normativa giuridicamente vincolante è perché, evidentemente, l’autodisciplina, che è il regime in corso da almeno 20 anni, non è efficace.

    In Italia, il MISE ha recepito gli UNGP nel 2016 e da allora non è successo nulla, nessuna evoluzione e non è stato dato avvio a nessuna delle attività conseguenti previste dal NAP. Non ho visto discussioni di Confindustria sul tema, si parla di sostenibilità e Agenda 2030, ma non di UNGP. Perché?

    All’Università, nei corsi di management si insegna Business & Human Rights (BHR) da diverso tempo, le imprese Italiane si devono preparare a ricevere una generazione di laureati molto più stakeholder-oriented di quelli delle generazioni precedenti. Inoltre, la direttiva di due diligence si applica solo a poche imprese, e non c’è evidenza empirica che possa danneggiare la competitività, anzi potrebbe succedere il contrario visto che in molti paesi sono già passati a normative vincolanti nazionali e quindi hanno già un competitive edge sulle imprese che ancora non incorporano nei modelli di business considerazioni di BHR (come in Italia, dove questo articolo sembra chiedere di aspettare addirittura altri 7 anni).

    In sostanza, a me pare che – per quanto con diversi limiti – questa direttiva di due diligence su ambiente e diritti sia una ottima opportunità per mettersi in pari, avendo noi un ritardo pluriennale su questo fronte. Se non altro la proposta di direttiva permette di discutere il tema, fino ad ora largamente ignorato – inspiegabilmente – in Italia. Segnalo infine che la delegazione delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani ha fatto una visita in Italia nel 2021, e ha redatto un report che evidenza le nostre lacune in materia, per cui mi pare non si tratti affatto di una normativa velleitaria. Certamente da sola la normativa non cambierà le cose (su questo si può aprire un capitolo ma diverrebbe troppo lunga la risposta), ma intanto iniziamo a porci positivamente nei confronti di questi cambiamenti, invece di avversarli o postporli. Ce la possiamo fare.

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