La Cina ha continuato a investire nell’industria mineraria e oggi ha una quota preponderante dei metalli critici. Sono materiali indispensabili per la trasformazione verde e digitale. Il Pnrr può essere l’ultima occasione per recuperare i ritardi.

Chi ha investito nei metalli critici

La trasformazione verde e digitale dell’Unione europea potrà avere successo soltanto con un accesso sicuro e continuo a trenta minerali e metalli critici (Critical Raw MaterialsCRMs – tra cui litio, cobalto, grafite, vanadio, bauxite, nickel e, non ultime, le terre rare Ree-Rare Earth Elements) a condizioni competitive e sostenibili.

Con una politica lungimirante, negli ultimi 40 anni il governo cinese si è accaparrato fino al 97 per cento della produzione mondiale dei metalli critici indispensabili per la fabbricazione di dispositivi elettronici e della filiera delle batterie elettriche. Apple, come altre industrie ad altissima tecnologia, fabbrica i suoi dispositivi in Cina. Così come vengono prodotti là, in larghissima parte, i motori elettrici per le auto, i generatori eolici, i pannelli fotovoltaici, gli smartphone, e gli schermi Lcd. Quando i governi occidentali hanno provato a riportare le produzioni in patria, Pechino ha imposto forti dazi sull’esportazione di tutti i metalli critici non lavorati. In questo modo, quei dispositivi possono essere prodotti a prezzi competitivi solo in Cina.

Grafico 1 – Dinamica della produzione mineraria delle Ree dal 1983 al 2001

Fonte: Progetto EURARE Ue, MiMa-GEUS, 2016, adattato da Castor and Hedrick, 2006, p. 771; USGS, 2016.

La Cina ha potuto così aumentare e incorporare quote crescenti di valore aggiunto, assicurando commesse per le proprie aziende e benessere per i propri lavoratori. I prodotti di alta tecnologia sono per la maggior parte concepiti e creati in Occidente, ma una volta trasferita in Asia la loro produzione, si è creato un chiaro incentivo per le aziende locali ad appropriarsi progressivamente della tecnologia. Le catene globali del valore – da cui dipendiamo per la nostra salute, tecnologia ed energia – sono fragili e lo resteranno, perché così abbiamo scelto noi stessi europei nella nostra miopia.

Il declino dell’industria mineraria

In Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, manca completamente, da oltre mezzo secolo, una politica mineraria e una politica degli approvvigionamenti delle materie prime minerarie. Mancano quindi anche gli investimenti necessari alla ricerca delle stesse materie prime e di metodi di sfruttamento economici ed ecologici. L’università italiana ha prodotto, e produce tuttora, professionalità eccellenti in questo campo, che tuttavia sono state molto trascurate e quindi spesso sono emigrate in paesi più attenti a queste problematiche.

Leggi anche:  Efficienza energetica delle case: un investimento per pubblico e privato

A partire dagli anni Settanta si è assistito a un ridimensionamento, e poi alla chiusura, di quasi tutte le attività minerarie produttive italiane di prima classe in mano allo stato, a eccezione di quelle petrolifere. Purtroppo, la loro gestione era affidata spesso in modo politico-clientelare e le produzioni minerarie più preziose, quelle dei cosiddetti sottoprodotti, sono state sottoposte a progressive spoliazioni, fino a portarle al fallimento. Ciò ha generato nell’imprenditore italiano, e forse nel politico, la convinzione che gli investimenti su imprese minerarie non potessero essere economicamente validi.

Ci sono però nazioni, come Canada, Usa, Australia, Cile, Russia, Brasile, che sviluppano in quel settore percentuali a due cifre del loro Pil. E le loro miniere si trovano in buona parte in altre nazioni, spesso in paesi in via di sviluppo. Perché l’Europa non fa altrettanto?

Interrompere o limitare la fornitura di questi materiali, come già avvenuto nel 2010 con aumenti dei prezzi che hanno raggiunto picchi di oltre 850 per cento, metterebbe in ginocchio l’industria militare, aerospaziale, elettronica e tutta la produzione dei dispositivi per la green energy dei paesi occidentali, Giappone incluso.

La questione, dunque, non è solo commerciale, ma centrale per la sopravvivenza dell’industria occidentale con gli annessi posti di lavoro. Lo sviluppo di una produzione nazionale dei metalli critici non può che passare da incentivazione e finanziamenti pubblici della loro ricerca mineraria e dallo studio e messa a punto di metodi di sfruttamento realmente green, attenti all’ambiente e alla salute, come invece non è avvenuto in Asia. Il Pnrr è l’occasione per includere progetti di questo tipo in una programmazione strutturale a medio termine.

I finanziamenti necessari sarebbero veramente limitati se confrontati all’importanza del tema. Allo stesso tempo, si entrerebbe in possesso di dati fondamentali per monitorare e studiare gli inquinamenti su quasi metà del territorio italiano. Sono già state ritrovate mineralizzazioni molto interessanti di metalli critici sul suolo italiano, che tuttavia devono essere sviluppate. La tecnologia italiana è senz’altro tra le più avanzate, ma spesso viene esportata senza essere applicata a livello nazionale.

Leggi anche:  Perché non si può rinunciare all'auto elettrica

La ricerca mineraria dovrebbe poi essere svolta strategicamente anche nei paesi in via di sviluppo con accordi di cooperazione in modo da assicurare le forniture all’Europa. Dal 2015 Stati Uniti e Australia hanno iniziato a recuperare il gap sui metalli critici, ma come abbiamo visto anche con la pandemia, sono da considerarsi paesi amici solo fino a quando non subentrano preminenti interessi nazionali.
Il Pnrr è il nostro ultimo treno, cerchiamo di non perderlo.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Il gatto e la volpe alla conquista del mercato energetico