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Clima: non è più tempo di annunci

Nei piani di ripresa e ricostruzione proposti dai vari paesi c’è consapevolezza dei problemi legati al cambiamento climatico. Ma bisogna andare oltre le dichiarazioni e intraprendere azioni significative contro le emissioni: servono risultati.

La ripresa e il cambiamento climatico

Le questioni economiche, oscurate durante il lungo inverno del Covid-19, cominciano a tornare alla luce. Mai come adesso che cominciamo a intravvedere la lenta uscita dalla pandemia, la ripresa economica e la speranza di elevati ritmi di crescita paiono così importanti in ogni parte del mondo. La speranza di rinascita economica si associa a un accresciuto allarme per i cambiamenti climatici e recenti incontri ai più alti livelli politici hanno segnalato una rinnovata volontà comune nell’instradare le economie su un sentiero di maggiore sostenibilità. Lo fa in modo deciso l’Unione europea – un gruppo di paesi di un certo peso nello scacchiere internazionale: l’attenzione alle azioni green detta le caratteristiche dei piani di ripresa.

Com’era già era accaduto all’indomani della crisi finanziaria del 2008 – in cui molti paesi avevano varato piani di sostegno che prevedevano interventi nel campo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica – anche nel mondo post pandemico si segnala una certa consapevolezza rispetto a questi temi. Ma la crisi del 2008 e i relativi investimenti non sono paragonabili a quello che avviene ora in termini di risorse investite e di impegno politico.

A ciò si aggiunge il ritorno sulla scena degli Stati Uniti di Joe Biden. “America is back” è stato il motto dei primi cento giorni del presidente Usa. E il “ritorno” ha assunto diverse forme nei diversi contesti. Anzitutto, un ritrovato attivismo sulla questione climatica con il Leaders’ Summit on Climate del 22-23 aprile scorso, un’iniziativa che ha coinvolto 40 capi di stato e di governo, in cui i maggiori paesi hanno fatto a gara nelle dichiarazioni di intenti nella lotta ai cambiamenti climatici.

Grandi annunci, grandi speranze

Gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler ridurre le proprie emissioni del 52 per cento (al di sotto del livello del 2005) entro il 2030. Per farsi un’idea, il target annunciato da Barack Obama nel 2014 era una riduzione del 26-28 per cento rispetto al 2005 entro il 2025. Ma il 2014 è, in questo caso, quasi un’era geologica fa. Anche la Cina, che allora aveva annunciato il proposito di raggiungere il picco delle proprie emissioni entro il 2030, l’ottobre scorso ha dichiarato di voler arrivare alla neutralità climatica entro il 2060. E l’Unione europea dell’European Green Deal ha un target di riduzione al 2030 del 55 per cento (ma rispetto al livello del 1990) e di neutralità climatica al 2050.

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Il confronto tra vari paesi/area, con anni di partenza e di arrivo differenti, non è sempre agevole; tuttavia, siamo di fronte a grandi propositi, che ci obbligano a ben sperare. C’è di più: con l’esperienza ancora non conclusa della pandemia, si è ribaltato il paradigma complessivo. Se prima, infatti, si trattava di rendere la crescita economica ambientalmente sostenibile, adesso si tratta di fare sì che la sostenibilità generi sviluppo e infine sostenga la crescita economica.

Il disaccoppiamento Pil-emissioni

Naturalmente, oggi possiamo chiederci quali siano stati i risultati raggiunti sotto il duplice profilo emissioni-crescita. Si parla di disaccoppiamento quando la crescita delle emissioni procede più lentamente di quella del Pil. Se si verifica, è una buona cosa. Nei grafici qui sotto abbiamo esaminato cosa hanno fatto i principali paesi che hanno risposto all’invito di Biden.

Come si vede, a partire dal 1990 l’Unione europea (che qui viene già considerata con 27 membri, ma il Regno Unito ha disaccoppiato e decarbonizzato più di tutti) si comporta assai meglio degli Stati Uniti per quanto attiene la dinamica delle emissioni. Diversa – e a vantaggio degli Usa – è la dinamica della crescita del prodotto interno lordo. Critica la situazione del Giappone. Per quanto riguarda i due giganti, ovvero Cina e India, a una esplosione della crescita della ricchezza – il riferimento è sempre il 1990 – si accompagna una crescita altrettanto imponente delle emissioni.

In questo quadro, che ha diverse sfumature, non ci si deve dimenticare di due aspetti fondamentali: 1) quelle che contano per la lotta al clima sono le emissioni globali, quindi tutti devono fare bene, 2) il disaccoppiamento dovrebbe essere “forte”, non “debole” come nei nostri grafici, cioè le emissioni dovrebbero ridursi, mentre il Pil dovrebbe continuare a crescere.

E quindi si torna al punto di partenza. I piani di ripresa, ricostruzione, resilienza devono rappresentare davvero una significativa spinta ad azioni contro le emissioni e i cambiamenti del clima. Comincia infatti a ridursi, se non a scadere, il tempo delle dichiarazioni, delle quali c’è stata forse una certa inflazione. Sono più di cento i paesi che hanno dichiarato di volere andare alla neutralità climatica nei prossimi trenta anni: fa ben sperare, ma abbiamo bisogno di risultati.

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Il rapporto Onu di sintesi sulle Nationally Determined Contributions (Ndc) legato all’Accordo di Parigi, pubblicato nel febbraio scorso, riguarda le dichiarazioni nuove o aggiornate di 75 paesi che rappresentano circa il 30 per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra. La maggior parte di loro ha aumentato gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Ciononostante, i risultati che si otterrebbero da questi buoni propositi non sono esaltanti: le emissioni totali di questi paesi si ridurrebbero di meno dell’1 per cento nel 2030 rispetto al 2010.

Naturalmente, si deve fare assai di più. E per farlo non bastano certamente gli annunci a effetto circa la neutralità climatica. Le dichiarazioni di intenti devono essere credibili e devono specificare in modo chiaro chi ne è protagonista e quali sono le azioni da dispiegare. La neutralità climatica deve prevedere la decarbonizzazione dell’economia, o comunque tendervi in maniera decisa. Investimenti e politiche che consistessero “solo” nel sottrarre emissioni dall’atmosfera, senza incidere significativamente sulle cause che le determinano, non rappresentano una corretta interpretazione della lotta ai cambiamenti climatici.

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  1. Vito Tanzi

    Un articolo molto saggio ed informativo. Complimenti agli autori e grazie.

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