Dopo cinque anni di aspre battaglie, si chiude forse definitivamente la vicenda Mediaset-Vivendi. Nel frattempo, però, il mondo della televisione è completamente cambiato, rendendo difficilmente realizzabile il progetto iniziale.
La nuova intesa
Dopo cinque anni di aspre battaglie e vari contenziosi legali, si chiude, forse definitivamente, la lunga vicenda Mediaset-Vivendi. In base all’accordo, stipulato nei giorni scorsi, verrà abolito il contestato meccanismo del voto maggiorato (che premiava Mediaset dandole il doppio dei voti nell’assemblea degli azionisti in quanto detentrice di azioni da più 24 mesi) e Vivendi voterà a favore del trasferimento della sede legale di Mediaset in Olanda. La società francese si impegna inoltre a vendere il 19,19 per cento dell’azienda italiana nell’arco di cinque anni. Fininvest, che detiene il 44 per cento delle azioni di Mediaset, rileverà il 5 per cento delle quote detenute direttamente da Vivendi, a cui rimarrà una quota residua del 4,61 per cento. La conclusione dell’accordo è prevista per il 22 luglio 2021.
Vale la pena ripercorrere i passaggi chiave della vicenda e interrogarsi sulle prospettive future per le due aziende.
Ad aprile del 2016 Mediaset e Vivendi siglarono un accordo che sembrava destinato ad avere un impatto rilevante sul futuro della televisione, non solo in Italia. L’intesa, che arrivava sei mesi dopo l’ingresso di Netflix in Italia, un elemento chiave per comprendere le ragioni dell’operazione, prevedeva uno scambio azionario e l’ingresso del colosso francese, già principale azionista di Telecom Italia, nel capitale della tv italiana, oltre all’acquisizione di Mediaset Premium.
Da un lato, Mediaset si liberava del gravoso fardello di Premium, che aveva condizionato negativamente le sue strategie e i suoi conti negli ultimi anni, abbandonando un’attività estranea al proprio core business – la tv a pagamento – per concentrarsi sui territori più noti e battuti della tv in chiaro, grazie anche alle sinergie e all’ulteriore iniezione di risorse del partner francese, potendo così dar vita a un processo di espansione anche a livello europeo.
Dall’altro, Vivendi, proprietario di Canal+, l’unica pay tv in Europa in grado di competere con il colosso Sky, poteva accelerare quel processo di convergenza tra contenuti e reti, che poggiava sulla forza propulsiva del video streaming come motore del cambiamento necessario per lo sviluppo delle reti a banda larga e ultra larga, a partire dall’elemento più critico, soprattutto in Italia, della domanda.
In questo modo, attraverso un processo di consolidamento, analogo a quello di altri gruppi media e di telecomunicazioni a livello globale, anche l’Italia, seppur guidata da un soggetto francese, si apprestava a diventare protagonista attivo della trasformazione digitale e della convergenza, attraverso il passaggio dalla tv lineare, in broadcast, alla tv non lineare in broadband della televisione a pagamento ed entrando in diretta concorrenza con i grandi operatori globali di video streaming (Netflix, Amazon, Disney). Nello stesso periodo, Sky integrava le proprie attività nel Regno Unito, Germania e Italia e dopo l’acquisto da parte di Comcast, diventava anch’esso operatore di telefonia, internet e tv a pagamento, oltre che nel Regno Unito, più di recente, e forse già in ritardo, anche in Italia (Sky-wifi).
Tutti contro Netflix
Se dunque la tradizionale televisione broadcast in chiaro e a pagamento non era destinata a crescere, da quel momento la vera sfida si sarebbe giocata su un altro terreno, quello della produzione dei contenuti e sulla loro distribuzione online, in grado di garantire l’attrattività dei servizi e dunque l’investimento di tempo e denaro da parte degli utenti. L’esclusività dei contenuti e lo sfruttamento di dati legati alla profilazione del cliente, per meglio assecondare i gusti del pubblico e mantenere un alto livello di fidelizzazione, rappresentavano i due fattori critici di successo per i servizi online, non solo a pagamento. La produzione e la fornitura di contenuti, in chiaro o a pagamento, da parte di una major europea, costituiva in fin dei conti il punto di maggior interesse e strategicamente più rilevante dell’operazione.
Se cinque anni fa tutto ciò prefigurava uno scenario futuribile, con una realtà dei numeri ancora lontana dal realizzarsi, oggi questo fenomeno appare di tutta evidenza e ormai ampiamente acquisito.
All’inizio del 2016 la tv lineare, in chiaro e a pagamento, rappresentava in Italia il 98,5 per cento delle modalità di accesso alla tv da parte dei telespettatori, e il 99,3 per cento del totale ricavi (pubblicità, abbonamenti e canone). A distanza di cinque anni, oltre il 30 per cento dei telespettatori ha accesso ai servizi di video streaming, che rappresentano un’analoga quota dei ricavi totali, e la tendenza, alla luce della forte crescita degli ultimi anni, appare destinata ad aumentare considerevolmente in futuro.
Cinque anni persi
Il Covid-19 ha indubbiamente accentuato e accelerato il processo e, soprattutto in Italia, ha evidenziato la crisi del tradizionale modello televisivo lineare, cosicché negli ultimi mesi anche fasce della popolazione finora impermeabili all’offerta online si sono avvicinate ai nuovi servizi in streaming. Si prevede pertanto, anche grazie al passaggio di una quota crescente della pubblicità verso l’online, in un mercato dominato da poche piattaforme globali (Google e Facebook su tutte), uno spostamento complessivo del settore verso internet, in tempi persino più rapidi di quanto previsto al momento dell’accordo Mediaset-Vivendi, in un contesto competitivo che appare sempre più difficile da mantenere in ambito nazionale e che richiede risorse e dimensioni diverse.
Il problema dunque oggi, nel valutare il peso e i benefici del nuovo accordo, è innanzitutto considerare che si sono persi cinque anni dietro le risse dei due contendenti, mentre nel frattempo i grandi operatori americani e globali hanno già preso il controllo di gran parte delle attività dei broadcaster televisivi europei e la tv lineare è ormai ridotta a un mercato secondario rispetto a tutto il mondo dello streaming video e della pubblicità online via internet.
Senza considerare che in questo periodo il titolo Mediaset ha perso oltre il 30 per cento del suo valore, rendendo sempre più difficile immaginare il perseguimento di obiettivi che al tempo sembravano coerenti con un ambizioso progetto europeo, ma che oggi appaiono forse superati o difficilmente realizzabili, rispetto a un mondo che in questi cinque anni è completamente e irreversibilmente cambiato.
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Lorenzo Luisi
Gentile prof. Petra, nel suo articolo ha dimenticato di inserire il riferimento al contesto storico italiano in cui si è inserito l’accordo. Le criticità, a mio avviso, già nel 2016 erano fin troppo evidenti.
In un mio articolo di 15 giorni fa [https://www.linkedin.com/pulse/fu-davvero-la-covid-ad-uccidere-tv-digitale-terrestre-lorenzo-luisi ], ho elaborato una figura di [ourworldindata] dove ho evidenziato il tasso di utilizzazione di Internet dal 1995 al 2017 e ho tratto conclusioni che mostrano nella implementazione del DTTV (2003) e la seguente legge Gasparri (2004) il peccato originale per cui siamo diventati l’ultima ruota del carro in Europa; A commento dell’immagine ivi presente aggiungevo: “Come si può notare nella prima parte del grafico la molti Paesi hanno uno scatto nell’uso di Internet e l’Italia a fine secolo è al terzo posto … Nel 2001 in Italia c’è un cambio di maggioranza … l’introduzione della DTTV e una riforma … con la Legge Gasparri … fino allo switch off la curva si abbassa e numerosi paesi sorpassano l’Italia nell’uso di Internet … dopo il 2012, c’è un ulteriore appiattimento della curva italiana, tanto che siamo superati da tutta Europa eccetto l’Ucraina” e “ … una tecnologia che nasceva già perdente (il vero fattore nuovo per l’epoca, internet, appunto, stava già prendendo il sopravvento sugli altri media come …) e personalmente credo che l’uso della DTTV diventerà sempre più residuale nonostante le spinte che presumibilmente otterrà …”