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Non tutti i lavoratori sono uguali davanti alla pandemia

Il coronavirus ha accentuato la crescita delle diseguaglianze tra italiani e stranieri sul mercato del lavoro. Gli stranieri hanno più spesso perso il lavoro. E chi l’ha mantenuto, ha dovuto svolgerlo in condizioni più difficili, soprattutto se donna.

Gli stranieri sono meno occupati e più inattivi

Su lavoce.info si è già scritto di come i lavoratori stranieri siano più esposti dei nazionali al rischio di disoccupazione, di marginalità, di “irregolarità” quale conseguenza della crisi provocata dal Covid-19. Questi lavoratori, insieme ai giovani e alle donne, rappresentano le fasce di popolazione più penalizzate durante la pandemia. In un recente lavoro, utilizzando i dati dei primi due trimestri del 2020 della Rilevazione sulle forze di lavoro, abbiamo mostrato ulteriori aspetti di diseguaglianza nel mercato del lavoro tra stranieri e italiani.

L’occupazione straniera in Italia si è ridotta nei primi due trimestri del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, del 10,4 per cento rispetto a un calo del 2,8 per cento dei nazionali, con un significativo cambio di rotta rispetto agli anni precedenti in cui, a parità di altre condizioni, essere un lavoratore straniero sembrava fornire una protezione dalla perdita dell’occupazione (tabella 1).

Il primo aspetto degno di nota è che al calo degli occupati non ha fatto seguito un aumento dei disoccupati stranieri. Il fenomeno può innanzitutto essere spiegato dalla contrazione di circa 100mila individui che si è osservata nella popolazione straniera in età di lavoro, passata da 4 milioni e 60 mila nel quarto trimestre 2019 a 3 milioni e 963mila cittadini stranieri nel secondo trimestre 2020. Una quota significativa di coloro che erano occupati a fine 2019, di fronte a uno scenario in rapido peggioramento, ha scelto di emigrare in altri paesi o di fare ritorno in quelli di origine.

A questo si aggiunge un aumento significativo e più che proporzionale degli inattivi rispetto ai nazionali, a testimoniare una probabile sospensione dell’attività di ricerca di lavoro per chi si è trovato senza nel periodo più intenso delle restrizioni, unito a una crescita dell’effetto “scoraggiamento” rispetto a una rapida ripresa economica al termine del periodo di lockdown. Incidono probabilmente in queste dinamiche anche il mancato arrivo dei lavoratori stagionali, in primo luogo nel settore agricolo. Secondo i dati sui permessi di soggiorno, il calo degli ingressi per lavoro stagionale è stato del 65,1 per cento nel primo semestre 2020 (Istat, 2020).

Minori benefici dal blocco dei licenziamenti

Il differenziale tra stranieri e nazionali nella diminuzione del tasso di occupazione mostrato nella tabella 1 sconta il fatto che le norme collegate alla gestione dell’emergenza sanitaria hanno disposto il blocco dei licenziamenti per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato non lasciando tuttavia nessuna possibilità ai contratti a termine di “congelare” la fine naturale. Tali interventi hanno dunque finito per privilegiare la forma più stabile di impiego, mentre le forme contrattuali a termine sono state la categoria che più ne ha risentito in termini occupazionali.

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Come mostrato dalla tabella 2, all’interno dell’occupazione dipendente a fine 2019, la quota di italiani occupati a tempo indeterminato era pari all’82 per cento, 5 punti percentuali superiore rispetto all’analoga quota rilevata per la componente straniera dell’occupazione dipendente (77 per cento). Poiché dunque l’occupazione a termine incide in misura maggiore tra gli occupati stranieri rispetto ai nazionali, le misure di contenimento degli effetti negativi della pandemia hanno di fatto privilegiato l’occupazione nazionale.

Più spesso impiegati in posti a maggior rischio contagio

Partendo dalle informazioni presenti nell’Indagine campionaria sulle professioni (Icp) e seguendo la letteratura sul tema, sono stati calcolati gli indicatori in grado di misurare il rischio di contagio da Covid-19 all’interno di ciascuna professione, sulla base di quattro caratteristiche del lavoro: la vicinanza fisica ad altre persone; il contatto diretto con il pubblico; il rischio di esposizione a malattie o infezioni; il fatto di svolgere un lavoro di cura. Si tratta di posti di lavoro che spesso non possono essere svolti da casa o in modalità smart working e che, con misure di lockdown o chiusure selettive per contenere il contagio, rischiano di essere sospesi con conseguente sospensione dello stipendio, solo temporaneamente nel caso in cui l’attività riprenda a emergenza finita, oppure a lungo termine in caso di ridimensionamento della forza lavoro impiegata per ridurre i rischi di contagio in maniera strutturale.

A fine 2019, il 40 per cento degli occupati nazionali e il 53 per cento degli stranieri svolgeva un lavoro con un rischio di contagio elevato in base alla definizione illustrata nella tabella 3. A causa della forte presenza femminile, soprattutto straniera, nel settore della cura e assistenza, non sorprende che la quota di donne che svolge una attività a rischio contagio sia superiore al 50 per cento tra le italiane (54 per cento) e addirittura pari al 75 per cento tra le straniere. Tra la fine del 2019 e i primi sei mesi del 2020, l’occupazione nei settori a maggior rischio contagio si è contratta in totale del 6 per cento, mentre si è ridotta solamente dello 0,4 per cento in quelli a minor rischio. Come evidenziato dalla tabella 3, tale dinamica ha inciso in misura maggiore sull’occupazione straniera, più rappresentata nei posti di lavoro a più alto rischio contagio.

La situazione non appare migliore neanche per i lavoratori stranieri che sono rimasti occupati. Abbiamo misurato tra i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, per i quali i provvedimenti straordinari di tutela hanno “congelato” i licenziamenti, la quota di coloro che ha utilizzato provvedimenti quali cassa integrazione, permessi e ferie per far fronte alla riduzione dell’attività produttiva.

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Nel secondo trimestre del 2020 solo il 65 per cento degli occupati ha effettivamente lavorato nella settimana in cui sono stati intervistati (tabella 4). Questi valori sono inferiori di circa 20 punti percentuali rispetto a quanto registrato a fine 2019, con una sensibile crescita della sospensione lavorativa soprattutto per gli stranieri che tradizionalmente mostravano valori molto elevati, superiori al 90 per cento nel tasso di lavoro effettivamente svolto.

In media non si rilevano sostanziali differenze tra italiani e stranieri che dichiarano di non aver lavorato nel secondo trimestre 2020, ma si trovano valori sensibilmente più bassi relativamente alla quota di donne straniere, quale conseguenza del loro massiccio impiego in attività sanitarie e di cura che hanno risentito meno della contrazione della domanda di lavoro registrata per le attività manifatturiere o per le altre attività dei servizi.

Tuttavia, questo dato racchiude ulteriori elementi di penalizzazione per il comparto straniero della nostra manodopera. Se si effettua un’analisi multivariata sulla probabilità di poter accedere a strumenti di sospensione dell’attività lavorativa quali Cig o utilizzo di permessi o ferie includendo anche l’indicatore del rischio di contagio da Covid-19 sul posto di lavoro, è possibile evidenziare come tale probabilità sia inferiore per gli stranieri rispetto ai nazionali, e sia in particolare sensibilmente più bassa (- 18 punti percentuali) per le donne straniere (tabella 5).

Dalla nostra analisi emerge dunque che la crescita delle diseguaglianze tra italiani e stranieri sul mercato del lavoro è stata drammaticamente accentuata dalla pandemia.

Se non hanno perso il lavoro come conseguenza della loro forte precarietà lavorativa, i lavoratori stranieri, e le lavoratrici in particolare, si trovano assai più spesso costretti a continuare a lavorare rispetto ai colleghi e alle colleghe italiane perché hanno più difficoltà ad accedere a strumenti di welfare o perché hanno più probabilità di svolgere lavori pericolosi e non trasferibili online (come ben documentato dal Quinto Rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni del Collegio Carlo Alberto e del Centro Studi Luca d’Agliano), spesso anche mal pagati, ma indispensabili.

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Il Punto

  1. Savino

    Conseguenze di scelte assurde come i lockdown e i colori delle Regioni che verranno bocciati dalla storia e che non hanno risolto il problema della pandemia creando altri problemi sanitari, economici, sociali e psicologici.

    • Gianni

      Quando mai i lavoratori sono stati tutti uguali? C’è una parte di loro che tra cassa integrazione ordinaria straordinaria e in deroga, e COVID, disoccupazione, mobilità, aspettativa sindacale, congedo matrimoniale e maternità, congedo e permessi L. 104, arrivano alla pensione senza aver mai lavorato! I dipendenti privati.
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