Un confronto con gli altri stati europei mostra il ritardo dell’Italia sulle politiche per la transizione energetica nel periodo pre-Covid. Le ragioni possono essere diverse, ma tutto fa ritenere che si tratti di una sottovalutazione della questione.
Azioni contro due emergenze
Nel 2020 il mondo è stato colpito dalla tragedia del Covid 19. Per farvi fronte praticamente tutti i paesi hanno approntato politiche economiche di reazione.
Queste politiche normalmente si compongono di tre elementi. Il primo è di carattere assistenziale e ha il duplice obiettivo di far fronte alla diffusione del virus e di rafforzare il sistema sanitario (compreso l’intervento finanziario a favore della realizzazione dei vaccini e il relativo acquisto). Il secondo ha prevalentemente carattere sociale e cerca di sostenere i redditi delle persone e l’attività delle imprese che più risentono della diffusione del virus. Il terzo prevede politiche per la crescita economica e mira soprattutto a riportare i paesi almeno alla situazione economica (in termini di reddito e di occupazione) precedente al 2020.
Quasi ovunque, però, le politiche per la crescita si sono sovrapposte agli impegni climatici dei diversi paesi, che mirano a contenere le emissioni di gas climalteranti al 2030. Sono obiettivi che i singoli stati si erano fissati attraverso gli Indc (Intended Nationally Determined Contributions), poi diventati Ndc (Nationally Determined Contributions), definiti alla Conferenza di Parigi del 2015, e poi via via aggiornati e rafforzati.
Nel caso dell’Unione europea, la sovrapposizione fra i due obiettivi, uno considerato di breve-medio, l’altro di lungo periodo, è stata evitata, sottolineandone invece sinergie e contemporaneità, con il prescrivere che almeno il 37 per cento del piano di spesa nazionale proposto da ogni paese nel quadro del Next Generation EU riguardi investimenti e riforme da attuare per fronteggiare il cambiamento climatico.
Il confronto tra l’Italia e gli altri stati europei
La Commissione si prende due mesi per valutare i piani nazionali per poi passare all’approvazione da parte del Consiglio, con un’analisi caso per caso.
Proprio per questo motivo, la comparazione dei programmi e delle politiche di ripresa dei singoli paesi europei esplicitati fino alla consegna dei Piano nazionale di ripresa e resilienza, in aprile, ha comunque validità, perché serve a valutare come reagiscono alla compresenza dei due “mali comuni” (Covid-19 e cambiamento climatico) senza finanziamento esterno. Inoltre, i finanziamenti del Next Generation Fund hanno un peso relativo molto diverso tra paese e paese: sono fondamentali per noi (e per la Spagna), molto meno importanti per altri, ad esempio per la Germania.
Per analizzare il tema ho fatto ricorso a un sistema di “tracciamento” delle politiche realizzato per il G20, l’Energypolicytracker, dove per ogni paese del G20 (si riunisce quest’anno nel nostro paese) organizzazioni e istituzioni competenti (per l’Italia Sda Bocconi e Legambiente) analizzano le politiche che hanno come riferimento esplicito il settore energetico nelle sue varie fasi (le emissioni di gas climalteranti per circa due terzi sono originate dalla produzione o consumo di energia). L’analisi per gli stati europei considerati dall’Energypolicytracker, più altre variabili attinenti, consente di arrivare alla tabella 1.
Le ragioni delle scelte italiane
Tra i diversi paesi, l’Italia sembra essere quello dove dal 2020 fino a oggi si è deciso di investire di meno in energia verde: sia in assoluto, sia in relazione al totale investito con destinazioni direttamente o indirettamente connesse con l’energia (colonna 1 e 2).
Questo comportamento confermerebbe una politica italiana complessivamente a favore delle fonti fossili: pur essendo l’Italia un paese a basso livello di emissioni pro capite, si stima ad esempio che da noi, nel periodo 2014-2019, l’ammontare di sussidi alle fonti fossili sia stato, rispetto ai paesi considerati nella tabella, tra i più elevati e crescente. Un’analisi più dettagliata delle principali voci di spesa esplicita poi la contraddizione fra obiettivi di resilienza (più che ripresa) e climatici: l’intervento a favore di Alitalia, secondo il tracker la voce di gran lunga più importante delle spese italiane a favore dell’energia fossile, è stato deciso senza porre condizionalità, mentre il governo francese aiuta Air France chiedendole un impegno a ridurre le emissioni.
In parte – ma non possiamo sapere quanto – la differenza fra l’Italia e gli altri paesi può essere spiegata dall’incertezza del valore degli stanziamenti (colonna 6): nel nostro paese oltre la metà degli interventi con queste finalità non è quantificato dal tracker, mentre per gli altri paesi il margine di incertezza è nullo o al massimo riguarda il 27-28 per cento dei progetti. In alcuni casi la non quantificazione è presumibilmente importante, come per l’importo del “Superbonus” al 110 per cento, non a caso presente nel “decreto Rilancio”. Quindi la distanza effettiva tra Italia e altri Paesi in termini di impegno nella transizione energetica è sicuramente minore di quanto appare. Ma in ogni caso il minor coinvolgimento italiano non è spiegabile né sulla base della distanza rispetto all’obiettivo di riduzione delle emissioni (non siamo i più vicini alla meta: colonna 5) né sulla base del peso economico della crisi pandemica, colonna 3 (si veda il confronto con la Spagna, colpita quanto noi dalla crisi ma con maggiore coinvolgimento dell’intervento pubblico nazionale, colonna 4).
Una possibile spiegazione può al solito essere l’entità del rapporto debito pubblico/Pil: ma solo se si dimostrasse che un più forte intervento nell’energia verde ha ricadute sul debito pubblico più elevate rispetto a forme di intervento dirette ad altre destinazioni (e già dalla primavera 2020 era stata resa nota la sospensione del Patto di stabilità).
L’interpretazione più facile è che almeno da aprile 2020 (il mese in cui ha visto la luce l’accordo Emmanuel Macron-Angela Merkel) in poi i governanti italiani abbiano rinviato l’intervento in materia di energia verde a quando sarebbero stati disponibili i fondi europei: ma perché gli spagnoli si comportano in modo diverso? Non resta allora che immaginare una minor considerazione del problema da parte dei nostri policy maker, probabilmente pressati da altre esigenze.
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