Il G20 sul clima è stato deludente, nonostante la dichiarazione finale unanime. Ora le speranze sono rivolte alla Cop26 di Glasgow. Dove dovranno essere affrontate questioni fondamentali, prima fra tutte quella dell’adattamento ai cambiamenti climatici.

Dichiarazioni e fatti concreti

Per le persone abituate ad affrontare con una certa dose di cinismo le infinite discussioni tra i paesi intorno al tema del cambiamento climatico, il moto di disappunto del ministro Cingolani – maturato alla fine dell’incontro del G20 di Napoli – non deve essere sembrato particolarmente sorprendente.

Come spesso accade, l’incontro si è chiuso con un’articolata dichiarazione unanime, ma con un’evidente spaccatura in termini pratici e politici. E tutto questo nonostante gli sforzi del ministro Cingolani, che era il padrone di casa, e dell’inviato per il clima John Kerry, che ha portato la parola, i desideri e il grande impegno del presidente Biden e dell’amministrazione americana rispetto ai temi dei cambiamenti climatici.

Il G20 è un forum internazionale composto da 19 paesi e dall’Unione europea, che comprende le principali economie sviluppate ed emergenti del mondo. Rappresenta l’85 per cento del Pil mondiale, due terzi della popolazione, il 75 per cento del commercio internazionale e poco meno dell’80 per cento delle emissioni. Resta tuttavia un gruppo disomogeneo non solo dal punto di vista del reddito, ma anche della struttura del sistema energetico. Include grandi paesi consumatori di energia, come Cina e Usa, e produttori come Arabia Saudita, Australia e Canada. Soprattutto, gli stati che ne fanno parte non sono allineati per quanto riguarda la politica sul clima. Schematizzando, l’Ue e gli Usa restano fedeli all’idea di ridurre le emissioni di anidride carbonica assai rapidamente, mentre paesi come Cina, India, Indonesia, Messico o Arabia Saudita sono decisamente più prudenti.

Cosa è rimasto dell’accordo?

Dal punto di vista pratico – e anche politico – l’assenza di un compromesso sull’uso del carbone e sulla necessità di contenere le emissioni a un valore compatibile con un incremento della temperatura non superiore a 1,5°C rende l’accordo praticamente inutile. All’interno del testo del comunicato finale, che non è di semplice interpretazione per i non specialisti, in sette pagine fitte fitte, i termini “coal”, o “fossil” non sono nemmeno presenti. Scarsi e tutto sommato ambigui i riferimenti agli accordi di Parigi. A dir il vero, dopo gli anni della turbolenta amministrazione Trump, i canali di comunicazione tra Unione europea e Stati Uniti su questi temi sono decisamente migliorati ed è legittimo attendersi molto dalla rinnovata collaborazione.

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Resta tuttavia il tema dei temi, quello che era già presente quasi 25 anni fa quando è stato firmato il protocollo di Kyoto. I paesi meno industrializzati non intendono assumersi obblighi minimamente paragonabili a quelli dell’Ue o degli Usa. È anche importante rimarcare che mentre si continua a guardare alla Cina come al paese degno di tutte le nostre attenzioni, ce ne sono altri – solo per rimanere in ambito G20 – come India, Indonesia, il Brasile che dovrebbero godere dello stesso interesse.

E Glasgow?

A tre mesi dalla conferenza di Glasgow (Cop26) – di cui l’Italia è co-organizzatore – è dunque necessario allineare i risultati del G20, per quanto poco soddisfacenti, alle aspettative che sono maturate negli ultimi mesi sulla Cop26. Rinviata e poi riorganizzata a causa del Covid, la conferenza scozzese intende accendere un faro su alcune questioni fondamentali del negoziato.

La prima riguarda il tema dell’adattamento al cambiamento climatico poiché è stato rilevato come l’attenzione, nei diversi incontri, sia spesso concentrata più sulle questioni relative alla mitigazione. Al contrario, da diverse parti si sostiene che proteggere le persone e la natura dagli impatti dei cambiamenti climatici, rafforzando l’azione di adattamento e di sostegno, debba essere al centro del pacchetto di decisioni che si prenderanno a Glasgow. È possibile che la Cop26 possa rilanciare una riflessione più ampia sulle priorità da dare all’adattamento, permettendo ulteriori passi in avanti del Global Goal on Adaptation (Gga).

Il Gga è una componente fondamentale dell’accordo di Parigi, che spinge sul miglioramento della capacità di adattamento, il rafforzamento della resilienza e la riduzione della vulnerabilità ai cambiamenti climatici, il tutto nel contesto della limitazione dell’aumento della temperatura globale il più vicino possibile a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.

La questione della riduzione delle emissioni è sempre centrale nel dibattito delle Cop e lo è anche per la numero 26. Benché non sia stato discusso in modo dettagliato durante la conferenza del G20, rimane chiaro che la scienza continua a indicare la necessità di aumentare significativamente i nostri sforzi collettivi per mantenere l’incremento della temperatura a 1,5°C. Il nuovo rapporto Ipcc – la cui pubblicazione è prevista per la seconda metà dell’anno prossimo – insieme all’accordo di Parigi forniscono un chiaro meccanismo per garantire che gli sforzi vadano nella giusta direzione in un processo continuo e possibilmente condiviso e ambizioso. Per fare un esempio, molte nazioni hanno espresso in queste settimane il proposito di presentare Ndc (National Determined Contribution) relativi al 2030 molto più ambiziosi di quelli del passato.

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Nel prossimo decennio sarà fondamentale raggiungere i traguardi di riduzione delle emissioni stabiliti, ma spesso viene fatto notare che i dati fattuali dimostrano come la strada da compiere sia ancora molta e che non sempre gli investimenti, in particolare quelli relativi al settore energetico, vanno nella giusta direzione. La stessa Agenzia internazionale per l’energia ha speso di recente parole molto gravi e molto chiare al riguardo.

In attesa della conferenza di Glasgow, diversi paesi hanno sottolineato l’importanza del Global Stocktake. Il meccanismo – previsto negli accordi di Parigi – impegna i paesi a considerare un bilancio globale ogni cinque anni per valutare i progressi collettivi dei paesi verso gli obiettivi a lungo termine dell’accordo. Il processo di valutazione ha lo scopo di informare il prossimo round di Ndc al fine di aumentare il loro livello di ambizione e offre anche l’opportunità di valutare la necessità di un’azione e un sostegno rafforzati.

Molti hanno infine segnalato la Cop26 come un’opportunità per riconoscere il numero crescente di parti che hanno assunto impegni verso la neutralità climatica o carbonica (zero emissioni nette) e per incoraggiare tutti i governi a fare propri tali impegni riflettendoli nelle proprie strategie a lungo termine (Lts).

Attendiamo quindi fiduciosi i risultati di Cop26, nella speranza che siano più concreti di quelli del G20 e in attesa dei cambiamenti strutturali fondamentali che arriveranno in Europa grazie ai diversi Recovery Plan.

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