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Da Obama a Trump: la finta battaglia del carbone

Con un ordine esecutivo Trump ha cancellato il piano anti-emissioni di Obama. Lo ha fatto per compiacere i suoi elettori negli stati carboniferi. Ma la crisi del carbone è iniziata prima delle misure dell’amministrazione democratica e non finisce ora.

Due politiche sul clima

Durante una visita nello stato “carbonifero” del Kentucky, lunedì 9 ottobre Scott Pruit, capo della Environmental Protection Agency, ha dichiarato che “la guerra al carbone è finita” e ha annunciato una disposizione per superare il Clean Power Plan di Barack Obama. L’ordine è stato effettivamente firmato il giorno dopo.

Dal punto di vista strettamente amministrativo, ovvero delle regole in vigore negli Stati Uniti per abrogare un atto come quello emesso dal presidente Obama, la cosa è meno semplice di come sembri. Inoltre, più di una dozzina di Stati hanno già annunciato che faranno quanto in loro potere per difendere il piano. Senza volersi addentrare in un ginepraio giuridico, resta il punto politico: Donald Trump prosegue nella sua politica tesa a ripudiare, pezzo dopo pezzo, l’eredità di Obama. Intende così onorare il debito contratto con il proprio elettorato e la partita sul clima era stata uno dei bersagli preferiti durante la campagna elettorale.

Presentato nell’agosto del 2015, il Clean Power Plan era un piano piuttosto articolato, finalizzato a ridurre le emissioni di gas-serra prodotte dalla generazione di energia elettrica. I media di tutto il mondo lo salutarono con grande enfasi e qualche quotidiano, sulla scorta dell’entusiasmo, annunciò “Usa, la svolta «verde» di Obama. Taglio del 30 per cento delle emissioni entro il 2030”. In realtà, la riduzione delle emissioni riguardava un unico – seppur importante – settore, quello della produzione di elettricità, che nell’economia americana è dominato dal carbone.

Nelle intenzioni dell’amministrazione Obama, il piano Clean Power Plan rappresentava un tassello fondamentale nell’ambito dell’accordo di Parigi sul clima. Gli Stati Uniti si erano infatti impegnati a una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra pari al 26-28 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025 e il settore termoelettrico rappresenta circa un terzo di quelle complessive americane. Tra i benefici annunciati spiccavano quelli per la salute: il piano avrebbe permesso di evitare 3.600 morti premature, 1.700 attacchi cardiaci, 90mila attacchi di asma, 300mila giorni di lavoro o di scuola persi. In termini monetari si sarebbero avuti benefici per il clima di 20 miliardi di dollari, benefici per la salute di 14-34 miliardi e vantaggi netti (non meglio specificati) di 26-45 miliardi.

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Una sorte ormai segnata

Per capire in che modo le politiche di Trump possano davvero influenzare il livello delle emissioni Usa bisogna ripartire dai dati e dagli obiettivi. L’obiettivo di riduzione previsto dall’amministrazione Obama per il Clean Power Plan era del 32 per cento rispetto al dato del 2005. Il riferimento non è affatto casuale: è un livello prossimo al picco di emissioni. Quelle del settore elettrico nel 2005 erano state infatti 2415 Mton (milioni di tonnellate). Ne discende che l’obiettivo era pari a circa 1.640 Mton (2415-(2415*0,32)). Nel 2015, anno del Clean Power Plan, le emissioni erano pari a 1.912 Mton. In altre parole, quando il presidente fissò l’obiettivo per il 2025, il sistema – pur in assenza del piano – manifestava una chiara tendenza alla riduzione e compiva gran parte del percorso (figura 1).

Figura 1

La ragione principale risiedeva nel maggior utilizzo del gas naturale nella produzione di energia elettrica. Per decenni, il carbone era stato la fonte di energia dominante per la generazione di elettricità negli Stati Uniti ma, per la prima volta, nel 2016 il gas naturale lo aveva superato. I motivi erano molteplici e non tutti immediatamente riconducibili ai relativi prezzi, che pure avevano un ruolo importante. Il tema ha avuto un ampio rilievo nella campagna elettorale di Trump, giustificato anche dal fatto che la produzione è molto concentrata: in soli cinque stati (Wyoming, West Virginia, Kentucky, Illinois, Pennsylvania) si ha infatti il 70 per cento della produzione di carbone. E lì gli elettori sono ovviamente molto attenti alla questione.

Ora, Donald Trump intende sostenere di fronte al proprio elettorato l’idea che la drastica riduzione dell’uso del carbone per produrre l’energia elettrica dipende dalle politiche del presidente Obama. Ipotesi difficile da sostenere. La crisi del comparto inizia molto prima degli interventi del 2015 di Barack Obama che, a sua volta, ha accompagnato una tendenza in atto e,

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con una certa dose di cinismo, l’ha “venduta” come un suo successo personale. E infatti già prima dell’esplicita iniziativa del presidente Trump la stessa Energy Information Administration aveva prodotto scenari con e senza il piano (figura 2).

Figura 2

L’abrogazione del Clean Power Plan potrà al massimo rallentare il già lento processo di riduzione della domanda di carbone, che resterà sostanzialmente piatta per i prossimi quaranta anni. La sua quota è però destinata a ridursi, complice l’incremento del gas naturale e delle rinnovabili (meno importanti che in Europa, ma pur sempre presenti), restando tuttavia abbastanza ampia da sollecitare nuovi investimenti in tecnologie avanzate, ambito in cui gli Stati Uniti mantengono la leadership.

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  1. Savino

    Resta in piedi il fatto che, con la finanziarizzazioone dell’economia, essa ormai pone le proprie basi sulla fuffa piuttosto che sulla produzione di beni e l’utilizzo di materie prime. Credo che Trump quando parli di miniere di carbone e associ il tema ai posti di lavoro da creare si riferisca soprattutto a questo.

  2. Giovanni

    Penso che nessun individuo possa accettare di essere considerato “fuori mercato” come il carbone. Troppo comodo dire alle persone : sei fuori, occorre dare delle prospettive, una speranza. Ed è per questo che se non è Trump sarà qualcun altro, ma i “fuori mercato” cercheranno sempre un qualche paladino che li difenda.

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