Nei mesi del lockdown un numero elevato di lavoratori precari è entrato in disoccupazione. Molti hanno beneficiato della Naspi ma, dai primi dati disponibili, inizia a emergere una difficoltà a uscire dallo stato di disoccupazione.
I caratteri della Naspi
La Naspi, cioè la misura di sostegno economico agli individui che perdono involontariamente un lavoro di tipo subordinato in vigore dal maggio 2015, ogni anno coinvolge – in termini di ingressi in trattamenti di almeno un giorno – tra 1,6 e 1,7 milioni di percettori. Solo una minoranza ha subito un licenziamento e dunque proviene da un lavoro regolato da un contratto a tempo indeterminato (il 30 per cento del totale). Nella maggior parte dei casi gli ingressi in trattamento Naspi riguardano chi ha svolto un lavoro a termine che non viene prorogato o trasformato in contratto di lavoro stabile (il 70 per cento).
Una quota della popolazione di lavoratori e lavoratrici a termine, pari a un quarto del totale degli ingressi annuali, entra in modo ricorrente in disoccupazione amministrativa (ossia nello stato di disoccupazione amministrativamente riconosciuto ai sensi del d.lgs. n. 150/2015 e successive modificazioni) e, di questi, circa il 20 per cento negli ultimi cinque anni è entrato in trattamento ogni anno. Questo “andamento stagionale”, legato alle dinamiche del lavoro nel settore turistico e a quello della scuola (pubblica e privata) determina due picchi nella distribuzione mensile degli ingressi in Naspi che nei mesi di giugno e settembre di ciascun anno registrano un aumento compreso tra le 150-200 unità rispetto alla media dei mesi immediatamente precedenti. Infine, la spesa complessiva sostenuta dall’Inps nel corso degli anni è cresciuta progressivamente raggiungendo i 15,9 miliardi di euro nel 2020, con un deficit del bilancio delle politiche passive del lavoro (legata alle minori entrate contributive e alla riduzione delle risorse per l’assicurazione sociale contro la disoccupazione) di 10,7 miliardi di euro.
La Naspi e la crisi dell’occupazione del 2020
La crisi dell’attività economica connessa alla diffusione dell’epidemia e alle restrizioni e chiusure introdotte prima a livello locale e poi, dal 9 marzo 2020, su tutto il territorio nazionale ha impedito ai datori di lavoro di mantenere o confermare le risorse umane di cui avevano bisogno nella fase precedente. Il legislatore ha quindi introdotto, tra i molti provvedimenti riguardanti il lavoro (per una disamina dei quali si veda qui) il divieto di licenziamento dalla data del 17 marzo 2020 (articolo 46 del d.l. n. 18/2020, decreto cosiddetto “Cura Italia”, convertito in legge n. 27/2020). Al di là della sua evoluzione, con l’estensione della durata temporale e la specificazione dell’applicabilità, sancite con la decretazione successiva, il temporaneo divieto di licenziare ha riguardato il “giustificato motivo oggettivo” (licenziamenti individuali per motivi economici) e le procedure di “riduzione del personale” (licenziamenti collettivi). La norma ha di fatto bloccato le cessazioni dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, ma nulla poteva rispetto alla drastica riduzione della domanda di lavoro a termine espressa dalle imprese.
Per quanto concerne le attivazioni, dal confronto operato sui dati Cico (Campione integrato delle comunicazioni obbligatorie) tra i dodici mesi precedenti l’inizio della pandemia (marzo 2019 – febbraio 2020) e i dodici mesi ricompresi nel periodo pandemico (marzo 2020 – febbraio 2021), emerge una variazione negativa del numero di contratti attivati e, soprattutto, del numero di lavoratori coinvolti nelle attivazioni, scesi da 5,4 a 4,6 milioni (-13,6 per cento). Fatta eccezione per i lavori domestici e quelli afferenti all’istruzione e alla sanità (ambedue sia del comparto pubblico sia privato), il numero di lavoratori che hanno sottoscritto un contratto di lavoro di tipo subordinato è diminuito in tutti i settori di riferimento (Figura 1).
La forte decrescita delle attivazioni – data la struttura del nostro mercato del lavoro – ha determinato un calo della cessazione dei contratti di breve durata che, in termini di variazione tendenziale, ha raggiunto a marzo 2020 il 79,3 per cento per i rapporti di lavoro della durata di un 1 giorno e il 75,6 per cento per quelli di 2-3 giorni. Le cessazioni dei contratti di durata 4-30 giorni sono diminuite invece del 17,8 per cento. Di contro sono cresciute, sempre in termini tendenziali, le cessazioni dei contratti di durata 2-3 mesi (+10,4 per cento) e, soprattutto, quelli di durata 4-12 mesi (+22,7 per cento). A tale proposito è utile ricordare che In Italia i contratti di lavoro della durata brevissima sono tantissimi. Nel 2019, su un totale di 11,34 milioni di contratti di lavoro cessati, quelli inferiori al mese erano il 35 per cento e la quota di quelli dalla durata di 1 solo giorno era del 13,3 per cento, ai quali si aggiungeva un ulteriore 5,4 per cento dalla durata fino a 3 giorni.
Analizzando nel dettaglio le causali di cessazione dei rapporti di lavoro subordinato nel primo semestre del 2020, a parte il forte aumento dei pensionamenti, si nota l’incremento del 150 per cento delle cessazioni anticipate dei contratti a termine (quasi 106 mila) rispetto al primo semestre del 2019 (erano stati circa 42 mila). Ben 47.550 di queste cessazioni anticipate sono avvenute nel periodo che va dal 23 febbraio al 17 marzo 2020, con il 50 per cento nel settore della ricezione turistica, e in particolare nel Nord Est, con una concentrazione molto alta in Trentino-Alto Adige, dove si è passati dai 1.500 casi del 2019 ai quasi 26 mila del 2020.
La ricaduta sui nuovi ingressi in trattamento Naspi è stata immediata. È presumibile che tutti (o quasi) i lavoratori e le lavoratrici entrati in disoccupazione e in possesso dei requisiti lavorativi e contributivi necessari, abbiano presentato domanda di accesso al sussidio e – dopo un’attesa media di 18 giorni – abbiano iniziato a ricevere il sussidio per disoccupazione. In termini di variazioni tendenziali, i nuovi ingressi in trattamento Naspi nel marzo 2020 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente sono quasi raddoppiati passando da 110 mila a poco più di 210 mila, con una variazione tendenziale di +91 per cento (Figura 2).
Salvo il settore riferito al lavoro di tipo domestico, in tutti i comparti produttivi la variazione degli ingressi in Naspi tra marzo 2020 e marzo 2019, risulta sempre positiva. Se la variazione tendenziale media è del 90 per cento, per alcuni settori questa percentuale è notevolmente superiore al +100 per cento (turismo +161 per cento; somministrazione +127 per cento; altri servizi pubblici, sociali e personali +135 per cento).
L’andamento post-lockdown
Nei mesi successivi al marzo 2020, la variazione tendenziale sempre degli ingressi in trattamento Naspi, calcolata sullo stesso mese dell’anno precedente, cala bruscamente fino a diventare negativa tra maggio e dicembre 2020. Molto probabilmente, questa netta diminuzione dei nuovi ingressi è legata:
- a una diminuzione complessiva del volume sia dei contratti a termine attivati, specie quelli di breve periodo sia della platea di lavoratori coinvolti, con un effetto di contrazione sulla platea potenziale di riferimento della Naspi. La stima della media mensile annualizzata della platea segnala, nel confronto tra i mesi finali del 2020 con i mesi finali dell’anno precedente, una variazione assoluta di circa -35 mila unità;
- a una diminuzione, all’interno della platea di lavoratori in disoccupazione involontaria, della quota di individui in possesso dei requisiti lavorativi e contributivi necessari ad accedere al trattamento Naspi e all’aumento, per contro, di quella priva di tali requisiti;
- agli effetti determinati dal blocco dei licenziamenti sugli ingressi nella condizione di disoccupazione. Rispetto al 2019 i percettori di Naspi a seguito di licenziamento (riguardante cioè i contratti a tempo indeterminato), che nel 2019 erano 811.000, sono divenuti 654.000;
- a una progressiva ripresa delle attività legate al turismo a partire dal mese di maggio e per tutto il periodo estivo del 2020.
Ciononostante, a fronte della diminuzione degli ingressi in trattamento il volume finanziario complessivo della misura, dal 2019 al 2020, è aumentato di circa 800 milioni di euro. Il motivo è legato al fatto che i trattamenti attivi nei mesi successivi al marzo 2020 sono rimasti in numero costante. In termini di trattamenti attivi per mese, infatti, le variazioni tendenziali manifestano valori positivi almeno fino a ottobre 2020 e solamente nei mesi di novembre e dicembre il confronto con gli stessi mesi del 2019 mostra un rallentamento del trend positivo.
Particolarmente interessante a tale proposito è l’andamento delle medie mobili calcolate sui trattamenti attivi per mese (Figura 3). La serie storica concernente il periodo compreso tra gennaio 2017 e gennaio 2021, oltre a rendere evidente una progressiva crescita dei trattamenti attivi per mese (da circa 1,2 milioni di trattamenti attivi nel 2017 si passa a circa 1,6 milioni nel 2020), mostra come, con il protrarsi dell’emergenza da Covid-19, la curva sinusoidale tende ad appiattirsi. Ciò significa che un numero crescente di disoccupati sussidiati – diversamente da quanto succedeva nel periodo pre-Covid, quando le interruzioni dei trattamenti per uscita dallo stato di disoccupazione riguardavano il 40 per cento del totale dei trattamenti Naspi di durata più lunga (13-24 mesi) – non è stato in grado di sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro della durata di almeno 6 mesi (al riguardo si veda il nostro Work Inps Paper).
Solo nei prossimi mesi, quando l’arco temporale dell’osservazione sarà sufficientemente ampio, si procederà a quantificare il tasso di uscita dalla disoccupazione amministrativa dei lavoratori e delle lavoratrici sussidiate durante il periodo di pandemia, verificando gli effetti della ripresa economica su questa specifica popolazione.
* L’articolo è estratto da un progetto di ricerca condotto nell’ambito dell’iniziativa VisitInps Scholars dell’Inps. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’Inps.
Questo contributo è apparso contemporaneamente anche sul Menabò di EticaEconomia.
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Roberto De Vincenzi
Mi è stato fatto notare da alcuni colleghi che, malgrado il blocco dei licenziamenti, nel testo si citano 654mila licenziamenti registrati nel corso del 2020. Colgo l’occasione per confermare il dato e sottolineare che, a parte i licenziamenti avvenuti tra gennaio e febbraio (pre-pandemia), nei mesi successivi ci sono stati i licenziamenti nei casi esclusi dall’ambito di applicazione della misura come, ad esempio, l’avvio delle procedure fallimentari, la chiusura definitiva dell’azienda oppure i licenziamenti regolati da uno specifico accordo aziendale. Comunque, si ribadisce un calo significativo dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e quelli collettivi nel corso del 2020 di circa 160mila unità. Proveremo ad approfondire il tema degli effetti del blocco sulle cessazioni involontarie dei contratti a tempo indeterminato (e delle causali utilizzate) in relazione agli interventi normativi successivi al primo decreto ‘Cura Italia’ . Ciononostante, la popolazione dei lavoratori a termine rimane di gran lunga quella più esposta alle crisi dell’occupazione.