Il dibattito sul reddito di cittadinanza si è concentrato sulla scarsa capacità della misura di avviare i beneficiari al lavoro. L’analisi dovrebbe riguardare invece i percettori che un lavoro ce l’hanno, ma ben poco stabile e scarsamente pagato.
Gli obiettivi del reddito di cittadinanza
“Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo paese. Non ti pare?” Così in una memorabile scena del film Heaven’s Gate di Michael Cimino il capostazione Curry si rivolgeva al disilluso sceriffo federale Averill, che rispondeva “Lo è sempre stato”. Lo scambio di battute torna in mente nella discussione sul reddito di cittadinanza.
L’acceso dibattito, dopo soli due anni dalla sua approvazione, sulla modifica o l’abolizione di un reddito di cittadinanza per le famiglie sotto il livello di povertà assoluta sembra solo in parte riproporre uno storico confronto ideale su una minima garanzia reddituale per i poveri e sulla redistribuzione della ricchezza in Italia. Il confronto appare, invece, concentrarsi su un altro aspetto, non tradizionalmente centrale negli interventi di contrasto alla povertà assoluta, ma riferibile più direttamente alla composizione e alle dinamiche del mercato del lavoro: il collegamento pressante tra l’attuazione della misura di reddito minimo e l’efficienza dei sistemi di attivazione per l’inserimento occupazionale.
La questione del lavoro povero
Dietro le argomentazioni riguardo l’efficienza dell’Rdc in termini di attivazione al lavoro sembra in realtà celarsi un altro tipo di critica, riferibile non al suo collegamento con i sistemi di condizionalità dei percettori, ma alla sua capacità di individuare e cambiare la composizione e le dinamiche del lavoro povero in Italia. Esaminando, infatti, i dati sugli individui beneficiari di età compresa tra i 18 e i 64 anni della misura nel 2020 si osserva come solo il 33 per cento presenta estratti contributivi di almeno una settimana nell’anno precedente (sia come lavoratore dipendente che per altre indennità come cassa integrazione, Naspi o maternità). Gli altri due terzi dei beneficiari non hanno estratti contributivi sia nel 2019 che nel 2018. Inoltre, definendo come stabilmente occupato un lavoratore che lavora più di tre mesi l’anno, le distribuzioni di chi risulta dipendente (chiaramente con un “lavoro povero”, se poi ha avuto accesso al Rdc) nel 2018 e 2019, ci riportano un quadro ancora più esaustivo: solo il 10,7 per cento risulta occupato stabilmente sia nel 2018 che nel 2019, gli anni precedenti all’ottenimento del Rdc (tabella 1). Ma neanche gli occupati stabili sono del tutto “stabili”, in quanto solo il 38 per cento di loro, nel 2019, ha un contratto a tempo indeterminato, il che ci riporta a una seconda equazione, ben conosciuta nel mondo del lavoro, che abbina il precariato alla povertà lavorativa (Corvino e Giubileo, 2021) (Marucci e De Minicis, 2021) (Bavaro, 2021).
L’analisi dei profili dei beneficiari dell’reddito di cittadinanza mostra, quindi, una ampia diffusione del lavoro povero in Italia e un tentativo di limitarne gli aspetti più deleteri. Quest’ultima dinamica ci sembra essere il punto di maggiore criticità dell’Rdc: alterare una dinamica di domanda e offerta del mercato del lavoro anche se produttrice di forti squilibri e asimmetrie dal momento che molti lavoratori accettano condizioni lavorative fuori da ogni garanzia, compresa quella di una vita dignitosa.
Se si analizza con più attenzione la composizione del lavoro povero rappresentato dall’Rdc notiamo come non sia solo riferibile a soggetti autonomi o parasubordinati. I tre quarti dei beneficiari occupati che richiedono il sostegno afferiscono, infatti, al mondo del lavoro dipendente e alle forme di contribuzione legate alle misure assicurative contro la disoccupazione in costanza o meno del rapporto di lavoro (figura 1). Vi sono poi soggetti occupati nel settore agricolo, nel lavoro domestico e autonomi (artigiani, commercianti).
Una parte significativa dei percettori di Rdc che versano contributi lavorativi risulta, dunque, con almeno una settimana contributiva legata al lavoro dipendente (più o meno contingente) e a quello agricolo/autonomo. Il numero dei lavoratori agricoli autonomi o dipendenti che percepiscono il Rdc è pari a circa 126 mila unità, ovvero 14 per cento del numero totale di lavoratori agricoli: la maggiore rappresentatività rispetto alle altre categorie è riferibile alla estrema occasionalità della prestazione lavorativa e alla mancanza di strumenti ordinari di sostegno al reddito di tipo assicurativo e di tutele in generale. Il numero di lavoratori domestici beneficiari di Rdc ammonta a circa 56 mila unità, anch’esso molto rappresentativo e corrispondente al 7 per cento del totale in Italia.
Rispetto ai settori di impiego (tabella 2) dei percettori del reddito che presentano estratti contributivi, rispettivamente il 4,8 e il 4,1 per cento risultano occupati nella ristorazione/alberghi e nelle società di noleggio e servizi. Tra questi, poco meno di un terzo sono a tempo indeterminato e, per quanto riportino un reddito imponibile sensibilmente più elevato rispetto alle loro controparti “precarie”, il reddito da lavoro annuo lordo risulta comunque assai ridotto (5.358 euro e 6.095 euro).
Quattro spunti di riflessione
Queste considerazioni portano a concludere che una seria analisi dell’iniziale attuazione del reddito di cittadinanza in Italia non si dovrebbe concentrare sull’efficacia e la funzionalità delle politiche attive. La maggioranza dei soggetti tra i 18 e i 64 anni che lo hanno ottenuto risulta difficilmente attivabile, mentre molti beneficiari di nuclei famigliari richiedenti il reddito erano in una condizione di povertà assoluta, anche se occupati.
Una più attenta analisi valutativa dell’impatto dell’Rdc sulla società, sul welfare e sul mercato del lavoro in Italia dovrebbe invece stimolare la riflessione su quattro punti specifici: 1) l’approvazione di una legge salariale minima, per limitare il fenomeno dei working poor, gli occupati con almeno una settimana contributiva richiedenti il reddito che presentano retribuzioni tanto basse da rappresentare una quota pari al 12 per cento delle retribuzioni annue medie dei lavoratori del settore privato in Italia (35.050 euro, Istat 2018); 2) la definizione di un sistema di ammortizzatori sociali previdenziali-assistenziali più universale, per alleggerire il peso sull’Rdc del lavoro povero contingente e dei soggetti che terminano l’utilizzo degli strumenti assicurativi ordinari; 3) la definizione di un accesso meno selettivo al reddito di cittadinanza in termini di anni di residenza in Italia, riprendendo l’esperienza del reddito di emergenza o del reddito minimo vitale in Spagna, che richiedono invece un anno di residenza; 4) un sistema di attivazione pubblico-privato selettivo, prioritariamente indirizzato verso inserimenti occupazionali di qualità in termini di consistenza e persistenza della prestazione lavorativa, per evitare che la spesa pubblica finanzi inserimenti lavorativi radicalmente contingenti, che richiedono successivamente ulteriore spesa pubblica per attuare nuovi interventi di reddito minimo allo stesso beneficiario (il 70 per cento delle attivazioni dei beneficiari dell’Rdc si riferisce a rapporti lavorativi fino a 6 mesi).
* Le opinioni espresse sono personali e non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza.
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Savino
E’ lecito, per la lotta alla povertà e per le politiche attive del lavoro, chiedere, tra gli altri, sindacati meno corporativi e burocratici e più con la funzione di corpi intermedi?
Rick
Per me, questo tipo di dibattito non può prescidendere dalle differenze territoriali sul costo della vita.
L’ISTAT ha un bel calcolatore online sulle soglie di povertà assoluta: per una singola persona si va da 569,56 (sud, comune < 5000 abitanti) a 839,78 (nord, centro area metropolitana).
Con differenze così ampie trovo difficile applicare un salario minimo uguale in tutta Italia.
bob
il titolo è emblematico! “…lavoro povero” La domanda da porsi è: perchè e cosa genera il “lavoro”povero?
A mio avviso l’evidente sistema industriale/produttivo che al 95% è costituito da produzioni a bassa tecnologia e sub- fornitura di prodotti di basso valore tecnologico. Non parliamo della ricerca inesistente in Italia in ogni settore. Senza dilungarmi l’ Italia doveva essere il Paese dei laboratori e delle ottime Università invece che diventare il Paese dei “capannoni e dei magazzini” . Questo black out dovuto, soprattutto negli ultimi 50 anni, alla misera politica messa in atto da azioni illusorie e da “scorciatoie” solo per raccapezzare voti senza una lungimiranza tipica del politico di livello ha generato questa situazione. Dove è andata a finire la chimica del dopoguerra , la farmaceutica, l’elettronica etc. ? Oggi un magazziniere non solo non è pagato adeguatamente ma viene inesorabilmente sostituito da un robot.
Massimo
Gent.le commentatore,
purtroppo i dati confermano come il lavoro povero sia determinato per la maggior parte oltre che da una stagnazione dei salari, da un contingenza delle prestazioni lavorative inappropriate. Un volta esisteva nei contratti permanenti il periodo di prova, oggi molti lavoratori vengono assunti con collaborazioni occasionali, apprendistati, tirocini per svolgere le stesse mansioni di altri lavoratori a tempo indeterminato. Il salario non garantisce più reddito sufficiente per la riproduzione dei bisogni essenziali famigliari, e questo ha determinato l’esigenza di integrazioni pubbliche assistenziali. Non si può proporre la centralità del lavoro e contemporaneamente fessurizzare la sua integrità salariale