Una decisione della Cassazione interviene nel lungo dibattito sulla impugnazione delle delibere assembleari di società. E tocca un problema centrale del diritto: il rapporto tra lettera della legge, certezza del diritto ed esigenze di giustizia sostanziali.

La risoluzione delle liti tra soci

Secondo Parmenide, uno dei padri dell’ontologia, l’essere è e non può non essere, e il non essere non è e non può essere. Per la Cassazione, invece, pare che nel mondo del diritto l’inesistenza non possa non esistere. Mi riferisco a una decisione del Supremo Collegio (n. 26199 del 27 settembre 2021) che interviene su un dibattito decennale sulla impugnazione delle delibere assembleari di società, e riveste grande importanza sia nella pratica sia a livello sistematico. La questione è meno filosofica di quanto la battuta iniziale può far pensare e, sebbene tecnica, merita una spiegazione.

Le liti tra soci, o tra soci e amministratori, spesso risultano nell’impugnazione delle delibere dell’assemblea, ossia l’organo che riunisce gli azionisti con competenze dalla approvazione del bilancio alla nomina delle cariche sociali, sino alle decisioni su operazioni straordinarie (aumenti di capitale, fusioni, scissioni). Le aule di tribunale e i repertori giurisprudenziali sono pieni di queste controversie.

Il nostro ordinamento, come altri della tradizione europea continentale, conosce due tipi di azioni: per annullamento (art. 2377 del codice civile) e per nullità (art. 2379). Semplificando al massimo, il primo rimedio si invoca di fronte a vizi procedurali “meno gravi” e ha maggiori restrizioni all’utilizzo, tra le quali – ed è importante – un termine di decadenza breve: tre mesi dalla delibera ritenuta invalida.

Nei casi più gravi, si può invece eccepire la nullità, con effetti più radicali: ad esempio, la delibera nulla non può generalmente sostituirsi con altra valida, il difetto può essere sollevato da chiunque vi abbia interesse, il termine per impugnare è molto più lungo e, in certi casi, si può sempre impugnare. Questo vizio, però, è invocabile solo in casi tassativi: quando l’oggetto della decisione è impossibile o illecito (gli esempi di scuola sono la nomina di un cavallo ad amministratore o l’acquisto di una partita di cocaina, più seriamente l’approvazione di un bilancio falso), ovvero, sul piano procedurale, se l’assemblea non era stata convocata o se manca il verbale.

Prima e dopo il 2003

Per comprendere si deve fare un passo indietro, a prima del 2003. Allora la legge prevedeva la nullità delle decisioni dei soci solo in caso di oggetto impossibile o illecito, senza riferimenti ai difetti procedurali appena citati. Quello che succedeva nella pratica – e i fatti sono simili a quelli sottostanti il recente caso – era questo: un socio di maggioranza, magari anche amministratore, teneva una “assemblea” (ad esempio di modifica dello statuto) senza averla nemmeno convocata, o comunque calpestando altre regole procedurali intrinseche a decisioni collegiali. Il socio di minoranza, magari proprio perché non convocato, veniva a sapere della decisione assunta solo dopo quattro mesi. A quel punto, tuttavia, l’azione di annullamento era preclusa dai termini di decadenza; mentre la nullità pareva inapplicabile perché l’oggetto della decisione non era illecito e pareva che il socio rimanesse senza rimedi. Per risolvere l’ingiustizia, i giudici utilizzavano la fattispecie – non prevista espressamente dalla legge – della “inesistenza”: la presunta delibera, in altre parole, mancava di elementi tanto fondamentali da non potersi nemmeno ritenere tenuta, con la conseguenza che la disciplina applicabile, nei fatti, si avvicinava molto a quella della nullità (ivi inclusa la possibilità di impugnazione anche dopo tre mesi).

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È evidente che se da un lato la scelta equitativa rispondeva a un bisogno di giustizia, dall’altro creava incertezze: quali sono i non meglio precisati “elementi fondamentali” la cui assenza implica uno scostamento tanto profondo tra fatti e modello legale da non potersi nemmeno parlare di delibera?

Nel 2003, tuttavia, una generale riforma del diritto societario ha articolato in modo più esplicito i presupposti di annullabilità e nullità e per quest’ultima ha espressamente elencato due vizi procedurali – mancata convocazione e assenza del verbale – che conducono alla nullità. La modifica è stata, ragionevolmente, interpretata da molti nel senso che, a tutela della certezza del diritto, il legislatore avesse voluto chiarire gli unici casi di nullità, mentre in tutte le altre situazioni occorre ricorrere alla annullabilità, non lasciando quindi spazio alla scivolosa categoria dell’inesistenza. Altri, invece, hanno continuato a ritenere possibile invocare la figura dell’inesistenza. Dopo quasi vent’anni di dibattito e decisioni, interviene oggi la Cassazione, con una presa di posizione per la seconda impostazione.

Il caso

In una società sarda, alcune delibere erano state approvate con il voto di un soggetto asserito titolare del 99 per cento delle azioni, che però si scoprì non legittimato perché chi gliele aveva vendute aveva, prima, ceduto le azioni ad altri. Senza entrare in dettagli, non poteva quindi considerarsi socio. Sebbene i giudici inferiori avessero affermato che le delibere erano semplicemente annullabili e quindi non più impugnabili per decorso del tempo, la Cassazione ha rispolverato la discussa categoria dell’inesistenza, consentendo quindi alla minoranza di prevalere.

In via generale, è probabilmente vero che il diritto non può fare del tutto a meno, come categoria logica, in certo senso pre-giuridica, dell’inesistenza. Si pensi a una assemblea del tutto finta, mai tenuta, che gli amministratori o alcuni soci fanno fraudolentemente apparire inventandosi un verbale che riporta fatti mai accaduti. Consentire che ciò abbia conseguenze ripugna ovviamente il buon senso, prima ancora che il diritto, anche se questa ipotesi potrebbe rientrare proprio nelle ipotesi di non convocazione o mancanza del verbale previste a pena di nullità dall’art. 2379 modificato nel 2003, senza bisogno di evocare l’inesistenza. D’altro lato, va anche ricordato che la norma in tema di annullabilità espressamente dice che sono (solo) annullabili, e quindi non nulle, le delibere assunte con il voto determinante di chi non è legittimato a votare: in molti casi, quindi, la soluzione è data dal legislatore.

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La questione – inesistenza sì, inesistenza no – tocca uno dei problemi centrali del diritto: il rapporto tra lettera della legge, certezza del diritto ed esigenze di giustizia sostanziali nel caso concreto. Si può essere tentati di tacciare come formalismo l’aderenza troppo rigida al testo normativo, ma non si deve dimenticare che affidarsi alla discrezionalità del giudice pure presenta pericoli in termini di prevedibilità e stabilità delle decisioni, valori particolarmente importanti nel mondo degli affari e delle imprese.

Parmenide si sarebbe divertito.

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