Ecco come in Germania, già cinquant’anni fa, il servizio pubblico per l’impiego affrontava e risolveva il problema delle persone difficilmente ricollocabili. Un modello di politiche attive del lavoro che l’Italia è ancora incapace di replicare.
Un decreto con gravi limiti
Sta per essere emanato un decreto interministeriale avente per oggetto il programma Garanzia Occupazione Lavoro, inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, il cui contenuto è stato faticosamente concordato nei giorni scorsi fra stato e regioni. Si tratta di un testo assai ponderoso, nel quale il termine “occupabilità” ricorre a ogni piè sospinto, ma dal quale non emerge in modo nitido e concreto che cosa ci si attende dalle strutture competenti nel prossimo futuro. Non viene indicato un solo obiettivo quantitativamente preciso, collegato a una scadenza temporale, al cui raggiungimento le amministrazioni regionali siano vincolate e sul quale la loro performance possa essere misurata nel prossimo futuro. Per dare al ministro e agli assessori regionali competenti un’idea del ritardo enorme che caratterizza la situazione italiana dei servizi al mercato del lavoro rispetto al centro e nord-Europa, nonché di quello che occorre realizzare per colmarlo, propongo loro la storia vera che segue, nella quale soltanto il nome del protagonista è frutto di fantasia.
Come si neutralizzava l’handicap in Germania già mezzo secolo fa
All’inizio degli anni Settanta Gavino Nieddu, barbiere, emigra dalla Sardegna in Germania, incoraggiato dalle notizie che gli arrivano da alcuni compaesani sulle occasioni di lavoro e i livelli delle retribuzioni. Tutto procede bene fino al 1977, quando un incidente stradale gli causa una grave lesione permanente: non può più lavorare in piedi. In attesa di trovare un nuovo posto di lavoro gli viene assegnato un trattamento di disoccupazione che copre due terzi del suo reddito precedente.
Poco dopo che gli è arrivato il primo assegno mensile, Gavino viene convocato da un job advisor del Bundesanstalt für Arbeit – l’agenzia pubblica competente all’epoca in questo campo –, che gli fa una lunga intervista su quel (poco) che ha studiato da ragazzo, quel che sa fare, quello che gli piacerebbe fare, tenuto conto della disabilità sopravvenuta. Gli indica i settori nei quali le imprese hanno maggiore difficoltà a trovare manodopera qualificata e specializzata, quelle che oggi vengono indicate come situazioni di skill shortage, spiegandogli che gli conviene indirizzare il percorso di riqualificazione in una di quelle direzioni, dove è più facile che l’investimento in formazione porti un risultato positivo. Gli spiega che, per un verso, se vuole continuare a godere del trattamento di disoccupazione deve scegliere un percorso di riqualificazione che abbia ragionevoli prospettive di successo; per altro verso, l’agenzia per il lavoro è pronta a finanziarlo sia sostenendo tutte le spese del corso, sia erogandogli un’indennità di formazione che porta il suo assegno mensile al livello dell’ultima retribuzione.
Tra le opportunità evidenziate dalle situazioni di skill shortage, Gavino è attratto dalla possibilità di diventare un ottico. Poiché la sua scelta viene approvata dal job advisor, gli viene proposto un vero e proprio contratto che lo vincola a seguire un programma di formazione della durata di tre anni, articolato in una fase preliminare, nella quale frequenterà corsi di lingua tedesca, matematica e fisica, e una seconda fase dedicata alla specializzazione. Lui firma il contratto e si dedica con grande impegno all’attuazione del programma concordato.
Il wage subsidy al posto della pensione di invalidità
All’inizio degli anni Ottanta, Gavino consegue il diploma di ottico. Poiché non riesce a trovare immediatamente il lavoro, il Bundesanstalt für Arbeit offre all’impresa disposta ad assumerlo un contributo (wage subsidy) iniziale pari al 75 per cento del costo di retribuzione e contribuzione per quattro mesi, che si riduce poi progressivamente fino ad azzerarsi dopo sedici mesi. In questo modo Gavino il lavoro lo trova, nonostante la sua disabilità; e nel lavoro affina col tempo la propria professionalità, al punto che dopo una decina d’anni riceve una proposta di lavoro molto vantaggiosa da Lussemburgo; e vi si trasferisce. Qualche anno dopo, infine, decide di mettere a frutto in proprio quanto ha imparato – nonché il gruzzolo che negli anni è riuscito a mettere da parte – aprendo un negozio di ottica nel paese di origine, la Sardegna.
Questo è il modo in cui una difficoltà di rioccupazione veniva affrontata in Germania già mezzo secolo fa; e nel centro e nord-Europa le vicende come quella di Gavino Nieddu nei decenni passati non sono state affatto eccezionali. Non possiamo comprendere l’arretratezza dei servizi al mercato del lavoro disponibili in Italia se non ci confrontiamo in modo molto puntuale con queste esperienze. Si obietterà che un intervento come quello descritto ha un costo che il nostro paese non può permettersi di sostenere; ma è facile replicare che in Italia a Gavino Nieddu sarebbe stata assegnata una pensione di invalidità, che sarebbe costata all’Erario complessivamente molto di più.
Le vicende come questa aiutano a mettere a fuoco il significato dell’espressione “politiche attive del lavoro” molto meglio di quanto lo faccia il decreto interministeriale che il governo è in procinto di emanare.
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Roberto DV
Molto chiaro così come è molto chiara l’arretratezza culturale e politica dell’Italia. Quello che viene in mente a proposito della Germania è che lì hanno un’attenzione maggiore alla gestione della ‘cosa pubblica’. In più hanno un’etica della responsabilità politica decisamente più sviluppata (quella verantwortungsethik di weberiana memoria). La responsabilità dell’imbarazzante arretratezza delle politiche del lavoro in Italia è della classe dirigente degli ultimi 50 anni, dei politici, ma anche dei tecnici di alto profilo, di estrazione accademica o meno. Con molto garbo, invitandola a considerare l’eventualità di esplicitarlo quando è il caso, le ricordo che lei ha fatto parte (come politico e come tecnico) della classe dirigente che dovrebbe assumersi la responsabilità della situazione attuale di questo Paese.
Pietro Ichino
Ringrazio Roberto DV dell’attenzione a quanto ho scritto e del garbo con cui mi ricorda essere io stato parte del ceto politico responsabile dell’arretratezza del sistema italiano dei servizi al mercato del lavoro. Accolgo la critica. Ricordo però a RDV le radici dell’arretratezza italiana in questo campo, costituite fino al 1997 da un monopolio pubblico della mediazione tra domanda e offerta che fino al 1992 aveva funzionato (malissimo) secondo la regola dell'”avviamento al lavoro su richiesta numerica”, cioè secondo graduatoria burocratica. Con il mio libro “Il collocamento impossibile” (1982) e con la quindicennale battaglia successiva, culminata nel ricorso vincente alla Corte di Giustizia del 1994, credo di aver dato un contributo non secondario al superamento di quel regime. E in seguito, con “Il lavoro e il mercato” (1996), “Inchiesta sul lavoro” (2011) e “L’intelligenza del lavoro” (2020), ma anche con il lavoro parlamentare nelle legislature XVI e XVII, non ho mai cessato di sottolineare la necessità di porre l’allineamento del nostro sistema dei servizi per l’impiego con quelli del centro- e nord-Europa come obiettivo cruciale delle strategie per la difesa e l’emancipazione del lavoro.
Pietro Della Casa
Onestamente, l´esempio mi pare un po` “atipico”. La maggior parte dei fruitori dell`Hartz IV sono assai meno motivati del Sig. Gavino Nieddu… e meno propensi di trarre frutto da grossi investimenti in formazione. Detto brutalmente: sono poco istruiti e più interessati ad una birra che ad un corso di formazione. Credo che il problema di fondo sia questo: in una economia fortemente competitiva, le persone con caratteristiche professionali deboli hanno poco spazio, e purtroppo solo una minoranza di queste persone può realisticamente essere portata a fare un salto di qualità. Quindi avremmo bisogno di un canale di occupazione “inclusivo” che possa adattarsi ad un “materiale umano” che rimarrà comunque poco qualificato – indipendentemente dagli sforzi dedicati alla sua riqualificazione. Ammetto che strutturare un simile canale non è facile (ed io non ho una soluzione da proporre) ma mi sembrerebbe preferibile alla mera assistenza caricatevole.
Pietro Ichino
E’ vero: il problema più difficile da risolvere e quello posto dalla bassa qualità e scarsa motivazione di gran parte della platea dei beneficiari del sostegno del reddito, soprattutto quando esso è di natura assistenziale (da noi: reddito di cittadinanza), ma anche quando esso è di natura previdenziale (da noi: Naspi o DisColl). Però in Germania, come nei Paesi scandinavi, il servizio pubblico da decenni si propone di verificare l’impegno delle persone per il reinserimento nel tessuto produttivo, anche al fine di incentivarle a farlo, attivando – almeno in qualche misura – una condizionalità del sostegno del reddito. Da noi, invece, di fatto non ci si prova neppure: non accade di fatto mai che rdc o indennità di disoccupazione subiscano una sospensione in conseguenza del rifiuto ingiustificato di una opportunità di lavoro. Due settimane fa ho cercato di descrivere ciò che accade quando un collocatore particolarmente diligente ci prova, in questo articolo: https://www.pietroichino.it/?p=54886.