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Ma lo smart working non è una politica di conciliazione

La riorganizzazione del mondo del lavoro, nel settore pubblico come in quello privato, sarà uno degli effetti di lungo termine della pandemia. Ma davvero lo smart working aiuterà a conciliare lavoro e famiglia? Uno studio ne fa dubitare.

Verso una “nuova normalità”

In queste settimane si discute molto su quale sarà la “nuova normalità” in termini di presenza sul posto di lavoro. Il governo spinge per un ritorno al lavoro in presenza dei dipendenti pubblici, non celando la necessità di rivitalizzare il commercio e la ristorazione, che fanno parte dell’indotto dei grandi uffici pubblici. In ottobre, il ministro Brunetta ha presentato le linee guida per la regolamentazione dello smart working come parte integrante dell’organizzazione della pubblica amministrazione attraverso il Piano integrato di attività e organizzazione (Piao), la cui approvazione è prevista entro il 31 gennaio. 

Lo smart working sarà uno strumento per migliorare l’erogazione dei servizi pubblici e garantire l’equilibrio tra lavoro e vita privata di lavoratrici e lavoratori. Per neomamme e per chi ha familiari anziani bisognosi di cure, lo smart working si propone come una misura aggiuntiva rispetto ai congedi di maternità o alla legge 104, che disciplina i permessi dal lavoro ottenibili per fornire assistenza a persone con handicap. 

Allo stesso tempo, molte aziende private vedono nel lavoro da remoto una possibilità di riorganizzazione e riduzione degli spazi adibiti a uffici, con una conseguente riduzione sostanziale dei costi fissi. Il Gruppo Generali è stata la prima grande azienda a sottoscrivere, già a fine luglio, un accordo strutturale sul lavoro agile con i sindacati di categoria: il lavoratore può scegliere fra tornare in ufficio come prima della pandemia o lavorare almeno tre giorni la settimana da casa. Come per il settore pubblico, il lavoro da remoto è proposto a madri, padri e lavoratori disabili o con disabili in famiglia come misura di conciliazione aggiuntiva rispetto a maternità e legge 104.

Lavorare da casa ha effetti sulla salute mentale?

Uno degli effetti di lungo termine della pandemia sarà sicuramente una riorganizzazione del mondo del lavoro. Un recente studio svolto negli Stati Uniti (Barrero et al., 2020) stima che la quota di ore lavorate da casa dopo la pandemia si stabilizzerà attorno al 20-30 per cento del totale, contro il 10 per cento pre-pandemia e un quasi 50 per cento durante i lockdown. 

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Visto che il lavoro da remoto diventerà sempre più parte della normale routine dei lavoratori, è importante chiedersi che effetto possa avere sul benessere e sulla salute dei lavoratori, oltre che sulla loro produttività, sui costi per le aziende e sull’indotto. In particolare, il lavoro da remoto può davvero considerarsi uno strumento di conciliazione famiglia-lavoro? 

In un articolo ora disponibile come IZA working paper, sfruttiamo la variabilità tra settori e occupazioni indotta dalle regole sul lavoro da remoto durante la pandemia per stimare l’effetto causale sulla salute mentale prodotto dal lavorare da casa invece che al posto di lavoro usuale fra marzo e luglio 2020. Usiamo i dati dell’indagine Share, rappresentativi della popolazione over 50 in Europa. Ci concentriamo quindi sui lavoratori anziani, una fascia di età particolarmente a rischio di infezione durante la pandemia, ma anche a rischio di esclusione sociale a causa delle minori conoscenze informatiche rispetto alla popolazione più giovane (si veda per esempio l’articolo di Cerati, Gaia e Sala). La misura di salute mentale considerata combina informazioni su depressione, problemi con il sonno e senso di solitudine riportate dagli intervistati dell’indagine. 

Chi ne beneficia e chi no

I nostri risultati suggeriscono che gli uomini senza figli hanno beneficiato in termini di salute mentale della possibilità di lavorare da casa, mentre le donne con figli a casa hanno sofferto. L’evidenza è coerente con il minore apprezzamento dello smart working da parte delle donne – associato a una iniqua ripartizione del lavoro domestico e di cura – rilevato da Di Biasi, Checchi e De Paola. Troviamo inoltre che nelle regioni europee in cui la pandemia è stata meno forte e le restrizioni più blande, cioè dove le condizioni sono più simili a quelle che si realizzeranno in un contesto di gestione del Covid-19 non più emergenziale, lavorare da casa piuttosto che andare al proprio posto di lavoro ha peggiorato la salute mentale degli intervistati. 

Se i nostri risultati sono corretti, serve una giusta cautela nell’incentivare il lavoro da remoto. Soprattutto, l’argomento “è una politica a favore delle donne” non trova riscontro nei dati. 

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A nostro giudizio c’è un errore di fondo: il congedo di maternità e la legge 104 aiutano a conciliare famiglia e lavoro perché permettono di stare a casa senza dover lavorare. Al contrario, lo smart working permette sì di stare a casa, ma lavorando. Questa differenza sostanziale tra smart working, da un lato, e congedo di maternità o legge 104, dall’altro, rischia – secondo noi – di compromettere i risultati sperati dal ministro Brunetta e dalle contrattazioni collettive nel privato. 

La valutazione dell’opportunità di lavorare da casa passa anche per il considerare le ricadute, negative, che può avere sulla salute mentale.

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  1. Savino

    Nella p.a., anche per l’utente non basta lo Spid per dire che tutto va meglio. Efficienza efficacia ed economicità sono cosa diversa dallo stare a casa e dal fare tutto da casa. Poi, in generale lo smart working non si concilia con eventuali ed auspicabili nuove assunzioni.

  2. angela

    Esistono anche le donne senza figli
    Sono quelle che sul posto di lavoro sono sempre “invitate” a fermarsi di più e a scegliere le ferie dopo le mamme.
    E che devono subire interrogatori, battutine, consigli non richiesti sul trovarsi un uomo e scodellare prole.
    Guarda caso, tutte quelle che conosco sono entusiaste dello smart working.
    Magari la prossima volta chiedete anche a loro.

  3. Giovanni

    Il lavoro agire secondo me dovrebbe essere uno strumento per riorganizzare ed efficentare il modo di lavorare nelle aziende (pubbliche e private) e di vivere le città (riducendo gli spostamenti di massa/traffico nelle ora di punta) e non un mero strumento di conciliazione casa-lavoro come spesso viene considerato (come dire, lo concedo ha chi ha figli piccoli/anziani cui badare/patologie ma tutti gli altri devono stare in ufficio).
    Condivido quindi il tema evidenziato dall’articolo. Semmai altre dovrebbero essere le politiche (pubbliche e private) a favore della conciliazione casa/lavoro come asili nido facilmente accessibili, assistenza agli anziani e orari di lavoro flessibili.
    Ció non toglie che dopo un periodo di pandemia e di sperimentazione di massa del lavoro agile, questo non può e non deve essere cancellato e il tornare tutti in presenza non è la soluzione (significa non aver imparato niente da un momento storico così difficile). Anzi, bisogna andare avanti e imparare ad organizzare ed integrare il lavoro agile per farlo diventare prassi comune nelle aziende superando modelli organizzativi vecchi di duecento anni.

  4. Eli

    Da madre lavoratrice… aiuta, eccome se aiuta. Lavoro in una grande azienda e non conosco una sola madre che si sia trovata peggio in smart (a rotazione, da noi) che in presenza 5 giorni su 5. Già solo ridurre le ore di spostamento settimanali (15, nel mio caso, 1 ora per tratta al giorno più consegna/recupero figli) è un’enorme agevolazione. E non solo per le madri o per le donne, tra l’altro. Certo non si può prendere come riferimento la situazione in piena pandemia, con figli a casa da scuola e lavoro a casa. È stato un delirio. Smart working non significa lavorare facendo le casalinghe… ma riconsiderare il lavoro prendendo il meglio da entrambi i sistemi.

  5. Leonardo

    Non possiamo paragonare l’Italia agli Stati Uniti o fare riferimento ad indagini statistiche europee. L’analisi deve essere condotta al mondo del lavoro e alla sua organizzazione rispetto alla realtà italiana, differente e particolare. Porre sullo stesso piano lo S.W. con i permessi previsti dalla legge 104 o con i congedi parentali è errato e fuorviante da un punto di vista giuridico , etico e sociale. La pandemia ha insegnato che è possibile organizzare il lavoro in modo differente, la vera sfida sarà quella di prepare sia le aziende e sia i lavoratori ad una nuova vita lavorativa, ad una nuova organizzazione che tenga conto del cambiamento. La pandemia ha modificato i nostri comportamenti, la nostre esigenze e i nostri bisogni in tale contesto deve essere inserito ed approfondito il tema dello S.W.. Il “nuovo” istituto dello S.W. non dovrebbe essere cancellato ma, dovrebbe essere semplicemente regolamentato dando vita ad una nuova normalità, lavorativa, economica, etica e sociale.

  6. Marco

    Ho sempre lavorato in smart working anche prima della pandemia. Durante la pandemia si é associato l’onere di gestire i figli tutto il giorno, ed é per questo che la sanità mentale ne ha risentito. Non é certo colpa dello smart working, ma della presenza costante dei figli “nell’ambiente di lavoro” domestico.

  7. bob

    ..il Paese costantemente allergico ad ogni forma innovativa e direi anche migliorativa. Un buio da Medioevo pervade questa nazione…

  8. Gabriella

    Dissento con l’affermazione che lo SM serve a conciliare casa/lavoro. Lavorare da casa, per le donne, significa svolgere il doppio lavoro (cura della casa, dei figli, degli anziani + lavoro)! Risparmiare il tempo di viaggio pare un gran guadagno, ma se poi quel tempo lo si spende per incombenze che prima erano assegnate a terzi (pulire la casa, andare a prendere i figli a scuola, preparare pranzo e cena, ecc ecc), il guadagno è solo in ansia.
    Lavorare da casa, per tutti, significa isolamento: meno circolazione delle informazioni, meno trasparenza e più potere del datore di lavoro. Lavorare da casa comporta lavorare per obiettivi e quanto più sei isolato, tanto più rischi che gli obiettivi che ti vengono assegnati non siano adeguati.
    Non è tutto oro quel che luccica…

  9. Davide

    Nella mia esperienza sindacale (ma anche personale) posso rilevare che sollevare dai tempi di spostamento fa la differenza. In particolare per le donne. Inoltre gli uomini che lavorano da casa è vero che devono “imparare” a gestire il proprio tempo di lavoro ma possono essere maggiormente partecipi dei carichi familiari. E’ vero quello che ho letto in un commento ovverosia che le difficoltà erano determinate dalla compresenza con i figli. Inoltre rispetto agli enti che hanno contatto diretto con il pubblico spostare il contatto dalla presenza fisica a quella remota riduce lo stress dell’operatore e questo, al di là della comodità per il cittadino, deporrebbe a favore dell’incentivare questa modalità. Naturalmente a parità di efficacia per il cittadino stesso.

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