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Nascite: è il lavoro delle donne a fare la differenza

La fecondità è di solito una decisione di coppia. Ma determinante non è la condizione economica del partner maschile, come vorrebbe la visione tradizionale dei ruoli di genere. È la situazione lavorativa delle donne a influenzare la nascita di un figlio.

Instabilità occupazionale e fecondità negli ultimi venti anni

La formazione di una famiglia è favorita da circostanze di pianificazione e stabilità economica e sociale; al contrario, l’instabilità occupazionale può ostacolare le decisioni sulla fecondità.

In Italia, dove i livelli di fecondità sono tra i più bassi in Europa, l’instabilità è stata accentuata da un processo di deregolamentazione del mercato del lavoro che ha reso sempre più problematico l’accesso a forme di occupazione stabile. I bassi livelli di fecondità non sono esclusivamente riconducibili alle incertezze lavorative, ma sono il risultato di molteplici fattori. Tuttavia, aspetti di instabilità aggiungono comunque un elemento rilevante in una già drammatica situazione, con conseguenze in termini di invecchiamento della popolazione.

Quanto conta però l’instabilità lavorativa nelle decisioni di avere un figlio? E per quale dei due (potenziali) genitori la situazione lavorativa è più decisiva? In un contesto tradizionale come quello italiano, il lavoro stabile dell’uomo continua a essere prioritario?

In un recente studio esaminiamo l’associazione tra instabilità lavorativa e probabilità di avere un primo o un ulteriore figlio in Italia dal 2000 al 2020 utilizzando i dati sulla Rilevazione forze lavoro italiane (forniti da Eurostat).

I grafici in figura 1 riportano le differenze nella probabilità di avere un primo o un secondo figlio nell’anno successivo per uomini e donne in base alla loro situazione lavorativa – distinguendo tra lavoro autonomo, contratti a tempo determinato e situazioni di disoccupazione – rispetto a coloro che godono di un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, al netto delle caratteristiche socio-demografiche degli individui. I grafici permettono di apprezzare quanto la situazione lavorativa di uomini e donne in Italia sia associata a diverse probabilità di avere un figlio e le tendenze nel periodo considerato.

Figura 1 – Differenze nelle probabilità di avere un primo o secondo figlio tra occupati a tempo indeterminato e coloro in altre situazioni lavorative, per uomini e donne dal 2000-2002 al 2018-2020.

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Dai grafici si evince che l’instabilità occupazionale individuale, come il lavoro temporaneo o la disoccupazione, influenza negativamente la probabilità di avere un (ulteriore) figlio sia per gli uomini che per le donne, indipendentemente dalle caratteristiche demografiche e socio-economiche. In particolare, sia la disoccupazione che i contratti a tempo determinato sono associati a probabilità nettamente inferiori di vedere una nascita, rispetto al “posto fisso”. L’instabilità è rilevante soprattutto per la prima nascita e in misura minore per le seconde, mentre la progressione verso ulteriori nascite (non riportata) è meno sensibile alla situazione lavorativa.

La rilevanza dell’instabilità occupazionale, in linea con i risultati in altri paesi, si è intensificata negli ultimi decenni e soprattutto per le donne è oggi ancora più negativamente associata alla fecondità. La penalizzazione dell’instabilità lavorativa si concentra in particolare sulle persone più istruite, che probabilmente hanno maggiori aspirazioni di carriera.

Non solo una questione di uomini e donne, ma di coppie

La fecondità è di solito una decisione di coppia, pertanto, oltre a richiedere la presenza di un partner, è influenzata dalla situazione lavorativa di entrambi gli individui coinvolti.

Probabilmente, è un’idea diffusa che in contesti tradizionali come quello italiano, quando si tratta di decisioni familiari, sia soprattutto la situazione lavorativa (ed economica) del partner maschile a fare la differenza, anche perché spesso è lui il principale “breadwinner”. Tuttavia, i nostri risultati indicano che questa concezione è errata. In netto contrasto con la visione tradizionale dei ruoli di genere, è invece proprio la situazione lavorativa delle donne a influenzare la nascita di un (ulteriore) figlio, anche in un contesto di coppia. La situazione lavorativa degli uomini, al contrario, è molto meno rilevante (anche tenendo conto della situazione economica di entrambi). La figura 2 mostra la misura in cui la situazione lavorativa del partner è importante per le decisioni di fecondità. Condizionatamente alla presenza di un partner, la figura riporta l’effetto della situazione lavorativa sia dell’individuo stesso (ego) che del partner sulla probabilità di osservare una prima e una seconda nascita sia per gli uomini che per le donne.

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Figura 2 – Differenze nelle probabilità di avere un primo o secondo figlio tra occupati a tempo indeterminato e coloro in altre situazioni lavorative, a seconda della situazione lavorativa propria e del proprio partner, per uomini e donne.

Se è la situazione lavorativa di lei a contare, significa che è ora di smettere di considerare l’occupazione femminile come una mera “seconda fonte di guadagno”, utile solo a integrare il budget familiare.

Va tuttavia notato che l’inattività delle donne rimane un importante fattore predittivo della maternità (non dimostrato nei grafici). Il dato, in contrasto con l’idea che l’occupazione femminile sia oggi un prerequisito per la genitorialità, va interpretato alla luce dell’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro, per cui le donne che dichiarano l’inattività sembrano essere sempre più selezionate e orientate alla famiglia. Nonostante alcune limitazioni dovute alla natura dei dati, troviamo chiare indicazioni sul fatto che la situazione occupazionale delle donne non può più essere considerata “secondaria”, ma merita invece un’attenzione particolare per le decisioni riproduttive.

Se la stabilità dell’occupazione femminile è particolarmente rilevante per la transizione verso la maternità, e se si aggiunge il fatto che un’ampia quota di donne in età fertile è in realtà occupata in modo non permanente, è legittimo dubitare che abbiano effetti rilevanti sulle decisioni di fecondità gli incentivi economici per le donne occupate in modo permanente con almeno due figli, introdotti durante l’ultima manovra di bilancio.

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  1. Savino

    Aspetti di libertà personale condizionati da fattori che, in una società contemporanea, sono francamente incomprensibili e meschini. L’economia eticamente non dovrebbe entrare così nella dinamica introspettiva. Bisognerebbe anzitutto garantire a tutte le persone il tempo per vivere e per essere, poi vengono le esigenze materiali, poi ancora la carriera in senso stretto. Questo se, culturalmente, si capisse che ognuna e ognuno possono farla, la carriera, rimanendo prima di tutto sè stessi. Non ci sono ricette di legge o obblighi per questo, occorre tanto buon senso e meno arrivismo, da parte di chi non può permetterselo, in giro. Nel senso che, spesso, penalizziamo alcune situazioni di libertà personale, per premiarne altre dove il premio è il superfluo. Allora abbiamo il professore universitario, che scrive libri, che fa consulenze, che fa congressi, che fa politica, ma tutti i lavori del mondo fa questo signore e per una povera ragazza non c’è un lavoro per conciliare tempi di vita e occupazionali? Assurdo e vergognoso.

  2. Armando

    L’assunto che in Italia vi sia l’idea che “sia soprattutto la situazione lavorativa (ed economica) del partner maschile a fare la differenza” non è supportato da alcuna dato. A dimostrazione che è soltanto un artifizio retorico per avere più clic.

  3. Mahmoud Abdel

    Gli aggiuntivi incentivi (nello specifico al momento sotto forma di decontribuzione) destinati alle donne che hanno oltre un figlio potranno essere empiricamente valutati (per quanto possibile, mancherà sempre la controprova effettiva) solo a distanza di diversi anni dalla loro introduzione. Questi incentivi si propongono diversi obiettivi: 1) aumentare il numero di donne che hanno ulteriori figli oltre al primo, 2) aumentare il numero di donne che avendo già due figli ne hanno di ulteriori, 3) aumentare la propensione a lavorare di tutte le donne nelle prime due categorie in vece di dedicarsi esclusivamente alla prole, rendendola più conveniente grazie alla decontribuzione stessa, liberando a catena nuovi spazi per lavori di accudimento della prole che sarebbero a quel punto da demandare al partner/esternalizzare a professionisti. Io credo sia fondamentale permettere alle madri che ne siano in grado di lavorare, realizzandosi così professionalmente, senza dover rinunciare alla possibilità di avere figli.

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