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Imprese ingrate*

Le imprese italiane ottengono dallo stato meno agevolazioni di quanto erogato nella maggior parte degli altri paesi europei. Però una percentuale elevata di beneficiari dichiara che gli aiuti non hanno inciso sui loro piani di investimento e assunzioni.

L’elenco degli aiuti dallo stato

Il sistema produttivo italiano, come quello di tutti gli altri paesi, usufruisce di numerose agevolazioni, sotto forma di sconti fiscali, garanzie sui prestiti e contributi vari. Le statistiche sull’ammontare dei benefici non sono univoche, benché l’Europa abbia imposto la tenuta di un Registro nazionale degli aiuti di stato, i cui dati sono disponibili online. 

Secondo l’ultima Relazione del ministero dello Sviluppo economico, nel 2019, prima degli aiuti straordinari previsti per fronteggiare gli effetti della pandemia, lo stato e le amministrazioni locali erogavano incentivi alle imprese per 3,5 miliardi (per investimenti, innovazione, occupazione e altro). Tuttavia, un recente studio della Banca d’Italia, utilizzando i dati del Registro nazionale degli aiuti tenuto dal MISE, ha stimato l’ammontare medio delle agevolazioni in 8,6 miliardi l’anno nel biennio 2018-2019, che non comprendono i crediti d’imposta per R&D, i super e iper ammortamenti e altri provvedimenti che sono sostanzialmente “automatici” e a carico della fiscalità generale. Sempre per il 2019, la Direzione per la concorrenza della Commissione europea (Dg Comp) ha valutato gli aiuti di stato italiani in 6,3 miliardi (pari allo 0,35 per cento del Pil). Solo Irlanda, Lussemburgo, Spagna e Olanda sono stati più parsimoniosi di noi a parità Pil). Dal calcolo europeo sono tuttavia esclusi i sostegni che, secondo le norme europee, non distorcono la concorrenza, quelli ancora al vaglio della Commissione, gli aiuti di minore importo e quelli destinati ad agricoltura, pesca, ferrovie e crisi bancarie. Tenendo conto anche di queste voci, nel 2019 le agevolazioni avrebbero superato i 22 miliardi (ovvero l’1,2 per cento del Pil). La Dg Comp elenca puntigliosamente ogni anno le misure prese da ciascun paese e l’Italia non brilla per “creatività” nel campo degli aiuti: c’è perfino qualche membro ed ex membro dell’Unione europea che, col beneplacito della Commissione, ha detassato il settore dei videogiochi.

La valutazione dell’efficacia

Al di là del loro ammontare, è sempre difficile valutare l’effetto addizionale degli aiuti sugli investimenti e sulla domanda di lavoro delle imprese, perché in molti casi gli incentivi spostano semplicemente nel tempo spese già programmate. D’altra parte, non si può pretendere che agevolazioni una tantum e modificabili nel tempo incidano troppo su decisioni che producono effetti sull’arco di decenni. Inoltre, investimenti e occupazione dipendono più dalle prospettive di sviluppo e redditività di lungo periodo che da semplici vantaggi fiscali. Infine, sarebbe necessario confrontare gli effetti macroeconomici degli incentivi con l’alternativa di sgravi fiscali di pari ammontare per tutti i contribuenti, che attiverebbero ugualmente domanda aggregata e quindi investimenti e occupazione.

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Purtroppo, una ricerca della Commissione segnala che la maggior parte degli stati membri, compresa l’Italia, non prevede ancora l’obbligo legale di valutare i risultati dei diversi aiuti, anche se non mancano vari studi su casi specifici. È quindi difficile misurare l’efficacia dei nostri aiuti, soprattutto in relazione a quelli di altri paesi. Il nostro è uno dei paesi più attivi nella valutazione, assieme a Germania, Francia, Polonia e Regno Unito, ma i pochi dati disponibili non sembrano incoraggianti. 

Ad esempio, secondo l’ultimo rapporto disponibile sulla “Nuova Sabatini”, relativo al 2018 e pubblicato da Invitalia nel 2020, il 56,7 per cento delle imprese beneficiarie, interpellate dallo stesso ente che eroga i contributi, dichiaravano che avrebbero realizzato lo stesso ammontare di investimenti e nello stesso periodo di tempo anche senza quegli aiuti; il 23,4 per cento che li avrebbe realizzati comunque, ma in anni successivi e l’11,2 per cento che avrebbe investito fino al 20 per cento in meno. In complesso, le imprese che hanno richiesto e ottenuto le agevolazioni creditizie previste dalla legge Sabatini ammettevano dunque candidamente di considerare una semplice integrazione del reddito d’impresa oltre l’80 per cento dei quasi 3 miliardi avuti dallo stato.

L’Inapp ha interpellato un campione di imprese che avevano ricevuto aiuti a vario titolo nel 2018: solo il 40,8 per cento ha dichiarato di aver effettuato nuove assunzioni grazie alle agevolazioni, e solo il 39,3 per cento ha risposto di aver investito più di quanto previsto in assenza di incentivi. Si tratta di risultati che replicano sostanzialmente quelli di una indagine del ministero dello Sviluppo economico condotta nel 2008 (e non più ripetuta da allora), secondo la quale le imprese che avrebbero effettuato esattamente gli stessi investimenti anche senza aiuti sarebbero il 31,1 per cento per quelli concessi dopo una valutazione preventiva e il 46 per cento per le misure automatiche (come i crediti di imposta).

Se queste percentuali di efficacia degli incentivi fossero estrapolate all’ammontare totale delle agevolazioni, nel 2019 lo stato avrebbe speso inutilmente una cifra compresa tra un minimo di 1,3 miliardi (basandosi sui dati riportati dalla Relazione del Mise) e un massimo di 3,3 miliardi (utilizzando le stime della Banca d’Italia), ovvero tra lo 0,1 e lo 0,2 per cento del Pil l’anno. Risultati anche peggiori (superiori di circa il 50 per cento) si avrebbero applicando le percentuali di inefficacia della “Nuova Sabatini”. Si tratta di una stima fin troppo prudenziale, visto che esclude i fondi contabilizzati dalla Commissione e riservati ad agricoltura, pesca, ferrovie e settore bancario, anche se questi hanno più la natura di sussidi alla produzione e “salvataggi”, piuttosto che di specifici incentivi all’occupazione e agli investimenti. 

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Se anche il piano Industria 4.0 soffrirà delle stesse inefficienze, non avrebbero gli effetti sperati almeno 8 dei 24 miliardi stanziati per il biennio 2021-2022 nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per fortuna, proprio il Pnrr spinge verso un rafforzamento del monitoraggio degli effetti degli interventi sull’economia reale, quindi ci si può attendere un significativo miglioramento nella distribuzione delle agevolazioni.

L’asta fra imprese

Non esistono ricette miracolose per disegnare agevolazioni del tutto efficienti. Una possibilità è quella di “mettere all’asta” gli aiuti, assegnandoli alle imprese che si impegnano a investire e assumere di più per ogni euro ricevuto, offrendo garanzie concrete ed esigibili in caso di inadempienza. Ciò non scongiurerebbe il rischio di un semplice anticipo di spese già previste, ma almeno ripartirebbe le risorse tra le imprese più motivate e reattive, in modo da massimizzare l’effetto sull’economia. La richiesta di precise garanzie scoraggerebbe abusi e azzardo morale. 

Un meccanismo simile non è nuovo: lo prevedeva la legge 488/1992 di riforma degli interventi nel Mezzogiorno e nelle aree depresse, seppure con molta burocrazia, ma la competizione tra imprese è stata progressivamente sostituita da incentivi più o meno automatici. Eppure, la 488 era l’unica legge che aveva registrato un elevato tasso di efficacia in base al sondaggio del Mise del 2008: il 75 per cento delle imprese che ne beneficiavano dichiarava infatti di aver effettuato investimenti superiori a quelli programmati. 

Aste di questo tipo si svolgono, con diverse modalità, in tutto il mondo, ad esempio per assegnare siti e agevolazioni agli investitori esteri , oppure per assicurarsi i sussidi per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Potremmo (ri)provare anche noi, oppure potremmo valutare se sostituire almeno gli incentivi meno efficaci con banali riduzioni delle imposte per famiglie e imprese.

*Le opinioni espresse dall’autore non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora.

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  1. Savino

    molti prenditori dovrebbero trovarsi un lavoro allora cambierebbero anche visione

  2. alessandro

    Se ho capito bene, prendendo per buone le stime della CE, noi diamo ogni anno una decina di miliardi di incentivi a imprese che NON ne hanno bisogno (pur avendoli richiesti) e che non esitano neache a dichiararlo pubblicamente con una certa spavalderia. E poi ci accapigliamo per qualche miliardo da utilizzare per ridurre l’Irpef o per mandare in pensione gente che ha lavorato più di 40 anni (poco meno della metà della vita attesa) e ci scandalizzamo per pochi furbetti del reddito di cittadinanza che fanno danni per una decina di milioni (non miliardi)? Non so se gli incentivi all’asta siano una buona idea (temo che finirebbero quasi tutti alle grandi imprese in grado di fornire adeguate garanzie), ma certamente renderebbero il sistema degli incentivi più trasparente e competitivo.

  3. firmin

    Se l’autore non è solo mal informato, la semplice incertezza sull’ammontare degli incentivi erogati alle imprese è uno scandalo. Capisco che la selva di fondi europei, nazionali e regionali possa creare problemi, E capisco pure che certe elargizioni sono a metà tra l’incentivo a investire ed assumere ed il semplice sussidio (una specie di reddito di cittadinanza ante litteram per le imprese). Questo potrebbe spiegare perché quasi la metà di coloro che ricevono i fondi dichiara di non utilizzarli per espandere l’attività e rinnovare gli impianti, ovvero per gli obiettivi per i quali sono stati erogati. Sarei curioso di sapere se ci sono statistiche analoghe in altri paesi. Mi complimento col MISE per essere talmente trasparente da pubblicare dati così imbarazzanti per tutti i governi. Invece trovo un’offesa a tutti i contribuenti che tutti i governi che si sono succeduti finora abbiano continuato ad erogare e inventare incentivi così fallimentari.

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