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Misurare il benessere in modo nuovo

Capire i limiti del Pil non significa abbracciare la prospettiva della decrescita. Ma servono nuovi indicatori per dar conto di società generative, capaci di fornire opportunità di realizzazione, in senso ampio, al più alto numero possibile di persone.

Perché il Pil non basta più

In un intervento di fine novembre 2021, il Commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni ha parlato della necessità di “andare oltre il Pil”, la misura del valore dei beni e servizi finali prodotti in un anno in un determinato paese, perché l’obiettivo non deve essere solo stimolare la crescita ma anche promuovere la resilienza con attenzione al sociale e al benessere ambientale, visto il consenso sul fatto che la crescita non è una cosa fine a se stessa.

Il consenso di cui parla Gentiloni si è sviluppato progressivamente nella letteratura economica su definizione e determinanti del benessere e del ben-vivere. Punto di partenza convenzionale di questa letteratura è il cosiddetto “paradosso di Easterlin”, una semplice evidenza descrittiva che mostra come nel secondo dopoguerra la significativa crescita del Pil pro capite negli Stati Uniti abbia trovato corrispondenza in un progressivo declino della quota di coloro che si dichiaravano molto felici, contraddicendo l’assunzione che la crescita del Pil potesse essere considerata condizione sufficiente per il miglioramento del benessere soggettivo degli individui. Studiando le ragioni del paradosso, la letteratura empirica successiva ha sottolineato come il Pil pro capite non rappresenti una buona misura neppure della soddisfazione economica dei cittadini, che è meglio approssimata dal reddito disponibile dopo le tasse e dopo aver considerato il costo di beni pubblici essenziali, come salute e istruzione. Ha inoltre sottolineato come il meccanismo psicologico dell’adattamento edonico riduce nel tempo la soddisfazione per il benessere economico realizzato, rendendo piatta nel lungo periodo la relazione tra soddisfazione di vita e benessere economico stesso. Infine, ha evidenziato come il confronto con il gruppo dei pari riduca la soddisfazione per il proprio benessere economico in presenza di diseguaglianze crescenti.

Molto è cambiato con la pandemia

La recente esperienza della pandemia ci propone una nuova versione “rovesciata” del paradosso, che apre nuovi interrogativi. Nell’anno terribile (2020) l’Italia ha registrato un calo del Pil dell’8,9 per cento e allo stesso tempo, sorprendentemente, secondo i dati Istat, ha visto una leggera crescita (dal 43,2 al 44,5 per cento) di coloro che dichiarano di essere molto soddisfatti della loro vita. Da notare che la reazione degli italiani è stata completamente diversa da quella della crisi dello spread, quando, nell’anno dei sacrifici del governo Monti, la percentuale di coloro che si dichiaravano molto soddisfatti della loro vita passò dal 45,8 per cento del 2011 al 35,2 per cento del 2012. Il paradosso appare supportato dalle stime contenute nel World Happiness Report, in cui l’effetto del 2020 nelle stime panel sulle determinanti della soddisfazione di vita è positivo e significativo per la maggioranza dei paesi presenti nell’indagine.

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La riflessione sulle ragioni del nuovo paradosso di Easterlin durante la pandemia è ancora in corso. Tra le possibili spiegazioni, ci sono la scoperta attraverso il lavoro a distanza delle opportunità di conciliazione tra vita di lavoro e vita di relazioni, la rivalutazione del valore della salute e della vita (c’è ovviamente un bias di sopravvivenza nelle risposte degli intervistati) e la riscoperta del senso del vivere della comunità in un periodo drammatico e straordinario della nostra storia, nel quale abbiamo avuto la sensazione di avere un copione e un ruolo ben preciso. Va ovviamente tenuto conto che, al di là del dato aggregato, gli effetti della pandemia, del distanziamento e dello smart work sul benessere soggettivo sono dipesi molto dalle caratteristiche del lavoro e anche dal genere, con impatto più negativo per le donne con maggior carichi di lavoro domestici e i lavoratori in settori più colpiti dalle conseguenze della pandemia. Una conferma dell’importanza dell’effetto smart work sulla conciliazione vita-lavoro sembra essere sottolineata dal fatto che la variazione migliore di soddisfazione di vita rispetto all’anno precedente è nella classe 35-54 anni, mentre l’effetto peggiore è sui ragazzi tra i 14 e i 19 anni.

Garantire la sostenibilità del sistema

Capire a fondo i limiti del Pil non significa abbracciare automaticamente la prospettiva e l’obiettivo della decrescita. Abbiamo bisogno di creare valore economico per combattere la povertà materiale, promuovere opportunità occupazionali, contrastare le diseguaglianze, ma la stessa transizione ecologica ci impone una revisione radicale del modo in cui il valore economico può e deve essere creato.  

In una panoramica sugli ultimi due millenni, Partha Dasgupta ricorda nel suo rapporto sulla biodiversità per la corona inglese che nell’anno zero eravamo 230 milioni con un’aspettativa di vita media di 24 anni, mentre nel 2020 la popolazione ha raggiunto i 7,8 miliardi con un’aspettativa media di 73 anni. Il progresso sociale, culturale, scientifico e tecnologico in duemila anni ha in pratica creato condizioni potenziali di vita sulla terra per circa 320 miliardi di anni in più, se consideriamo la differenza di prodotto tra aspettativa media e abitanti nelle due diverse epoche.

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Ma ciò ci ha portato vicini ai limiti di sostenibilità ambientale del sistema. Per questo motivo la via dell’economia circolare è l’unica praticabile, ovvero è necessario disallineare la creazione di valore economico dalla distruzione di risorse naturali, gestendo in modo ottimale il ciclo dei rifiuti, aumentando la quota di materia seconda (riuso, riciclo) utilizzata come input di nuovi prodotti, aumentando la loro durata media di vita e il tasso di utilizzo della capacità consumativa (intensità di utilizzo per intervallo di tempo) dei beni di consumo strumentali (per esempio, le auto o gli strumenti per il fai-da-te) attraverso pratiche di sharing. La sfida della soddisfazione e ricchezza di senso di vita, però, va oltre. Gli stessi indici di benessere multidimensionale, oggi sempre di più riferimento dell’azione di economisti e policymaker (dai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite al sistema degli indicatori Bes, benessere equo e sostenibile, in Italia) hanno un limite sostanziale. Possiamo infatti avere reddito, salute e istruzione, ma se passiamo la giornata sdraiati sul divano non siamo felici. L’uomo è cercatore di senso prima di essere massimizzatore di utilità e l’ultimo miglio della soddisfazione e ricchezza di senso di vita delle persone è l’espressività orientata a un fine che ci appassiona. Gli studi più recenti chiamano tutto questo generatività, ovvero combinazione di creatività e capacità d’impatto positivo della propria vita sulle vite altrui. La sfida dei prossimi anni sarà dunque quella di costruire società generative in grado di fornire opportunità di realizzazione e di fioritura di vita al più ampio numero possibile di persone. Per far questo non smetteremo di misurare la quantità di beni e servizi prodotti, ma vi affiancheremo indicatori di benessere multidimensionale e di generatività (come la capacità di promuovere creazione di imprese e organizzazioni sociali, longevità attiva, politiche per la riduzione dei Neet) in grado di segnalare se siamo sulla giusta rotta della ricchezza di senso del vivere.

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Il Punto

  1. Roberto Fei

    “L’uomo è cercatore di senso prima di essere massimizzatore di utilità e l’ultimo miglio della soddisfazione e ricchezza di senso di vita delle persone è l’espressività orientata a un fine che ci appassiona”. Una considerazione acuta, che se non ricordo male lei recita anche nel suo corso di Microeconomia. Articolo molto interessante, le faccio i miei complimenti da ex-studente e da appassionato del suo lavoro.

  2. Gianpaolo Rosani

    Articolo davvero molto interessante, complimenti, di quelli che aiutano a vedere con occhi diversi le medesime cose di prima.

  3. RAVAIOLI LUCIANO

    Riflessioni profonde che ci aiutano a capire che cosa ci rende felici:
    – siamo cercatori di senso più che “massimizzatori di utilità”
    – è necessario disallineare la creazione di valore economico dalla distruzione di risorse naturali
    e così via
    grazie professore
    Luciano Ravaioli

  4. Firmin

    Forse pretendiamo troppo dal Pil, che invece misura solo UNA PARTE dei beni e servizi a disposizione di una collettività. In particolare, mancano i servizi di cura, assistenza, ecc. prodotti e consumati all’interno della famiglia e del giro degli amici, che invece sono fondamentali per determinare la felicità e il benessere. In compenso il Pil comprende attività che peggiorano il benessere, come l’industria delle armi, quella dei cibi spazzatura, la pubblicità invasiva, le attività irregolari e parecchie di quelle criminali. In pratica, se un ragazzo spaccia droga o partecipa ad un pollaio televisivo fa aumentare il Pil, mentre se fa volontariato no; oppure una amnistia per spacciatori, protettori e ricettatori fa aumentare il Pil, mentre un efficientamento del sistema giudiziario e della polizia lo fa diminuire. Prima di abbandonare il Pil come target approssimativo dello sviluppo io comincerei a migliorarlo includendo le attività che creano benessere anche se non passano per il mercato o per la pubblica amministrazione.

  5. Federico Lazzero

    Articolo molto interessante l, scritto da uno dei massimi esperti mondiali della materia.
    Purtroppo però la realtà ci dice che l’unico strumento preso in considerazione dai policy makers è il PIL.
    Nell’oramai lontano 2010 (tempo della commissione Rudini) redassi una, discreta, tesina di laurea triennale sull’inadeguatezza del PIL dove trattavo approfonditamente il paradosso di Easterlin e i Suoi ottimi studi di allora ma nulla, con rammarico, è cambiato. Ricordiamoci anche che nei lontanissimi anni ‘60 Bob Kennedy pronunciava un discorso di critica al PIL
    Pongo quindi la seguente domanda: come si può agire sulle istituzioni per cambiare veramente i parlamentari di misurazione della crescita economica?

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