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Da un lavoro a un altro: le “grandi dimissioni” in Italia*

L’aumento delle dimissioni ha acceso i riflettori sulle scelte dei lavoratori nel mondo post-Covid. Nel nostro paese la crescita è determinata da una ripresa della domanda di lavoro. Mentre per ora non si vedono segnali di ricollocazione settoriale.

Dimissioni in Italia e Francia

Il recente aumento delle dimissioni, osservato in diversi paesi (qui e qui) tra cui l’Italia, ha acceso i riflettori sulle conseguenze della pandemia sul mercato del lavoro e, in particolare, sulle scelte dei lavoratori nel mondo post-Covid. Dopo alcune incertezze sulla vera natura del fenomeno, molto cresciuto nel secondo trimestre del 2021, vi è ormai evidenza che, più realisticamente, la crescita delle dimissioni sia determinata da una ripresa della domanda di lavoro e dal conseguente aumento delle transizioni dei lavoratori tra imprese (qui e qui). Questo tipo di transizioni può avere impatti di vario tipo sul mercato del lavoro, alcuni dei quali positivi, su cui si è già molto scritto e discusso prima della pandemia, soprattutto negli Stati Uniti (si veda qui e qui).

In Italia, il fenomeno è stato studiato da Clémence Berson, Marta De Philippis e Eliana Viviano, utilizzando dati amministrativi su un orizzonte di venti anni; la ricerca si ferma a poco prima della pandemia e confronta le evidenze italiane con quelle francesi. Sebbene entrambi i paesi siano caratterizzati da una limitata mobilità nel mercato del lavoro – molto minore, per esempio, di quella osservata negli Stati Uniti – le autrici mostrano che la probabilità di cambiare (volontariamente) impiego è maggiore laddove sono più favorevoli le condizioni economiche: quando la domanda di lavoro aumenta, è infatti più probabile che i lavoratori trovino offerte migliori, in media meglio retribuite, e siano quindi disposti a dimettersi dalla precedente impresa. Il fenomeno è più marcato per i lavoratori più istruiti e per coloro che hanno un contratto permanente, che con maggiore probabilità lasciano la propria impresa solo quando trovano un nuovo impiego. Inoltre, in Italia e Francia i movimenti da un lavoro a un altro sono accompagnati da incrementi retributivi, ma i guadagni sono inferiori a quelli generalmente associati a questi flussi negli Stati Uniti.

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Si dimette chi ha un nuovo impiego

Nell’attuale fase di ripresa economica, è quindi del tutto logico attendersi un incremento delle dimissioni, che probabilmente segnalano un aumento delle transizioni da un lavoro a un altro. Benché sia necessario attendere il consolidamento della fase di crescita per una risposta definitiva, l’analisi condotta periodicamente dalla Banca d’Italia e dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali fornisce importanti indicazioni sull’andamento più recente del fenomeno. La ricerca utilizza l’universo dei rapporti di lavoro attivati e cessati ogni giorno in Italia rilevati dal sistema delle comunicazioni obbligatorie e mostra che il numero di dimissioni e attivazioni (di contratti a tempo indeterminato), dopo essere diminuito marcatamente in seguito all’insorgenza del virus, è tornato a crescere nel corso del 2021 e, nel caso delle dimissioni, ha superato i livelli del 2019. La correlazione tra le due variabili, positiva e in crescita dalla fine del 2018, è ulteriormente aumentata durante la pandemia e si è stabilizzata nel 2021 su livelli storicamente elevati (figura 1). Sulla base di queste evidenze, si può ipotizzare che buona parte dell’aumento delle dimissioni nel periodo luglio-ottobre 2021 sia legato alle transizioni tra un lavoro e un altro come conseguenza delle migliori prospettive occupazionali. Inoltre, in un contesto di forte incertezza, è ragionevole supporre che, più spesso che in passato, i lavoratori abbiano rassegnato le dimissioni solo di fronte alla prospettiva di un nuovo impiego. In altre parole, i dati suggeriscono che i lavoratori sono oggi relativamente più cauti di prima nel lasciare il loro lavoro e non viceversa.

Ricollocazione tra settori

La pandemia, d’altra parte, potrebbe aver modificato in modo permanente l’allocazione dei lavoratori tra settori. Se confermato, il fenomeno potrebbe essere riconducibile a cambiamenti strutturali, associati per esempio a nuove abitudini di consumo o investimento o a diverse preferenze dei lavoratori (come quelle rivolte verso impieghi più facilmente telelavorabili o con meno rischi per la salute, si veda qui). 

Per studiare queste ipotesi abbiamo analizzato un campione casuale tratto dalle comunicazioni obbligatorie basato sulle date di nascita dei lavoratori (Cico). Nel campione, tra i lavoratori che ogni mese, da novembre 2017 a marzo 2021, hanno rassegnato le dimissioni e trovato un altro impiego entro tre mesi, abbiamo calcolato la quota di quelli che sono passati a un settore diverso da quello di provenienza (figura 2). Dopo la pandemia, la quota di lavoratori “ricollocati” è cresciuta in media di 5 punti percentuali, dal 49 al 54 per cento. La probabilità di ricollocazione è più alta tra i giovani, le donne e gli individui con un livello di istruzione più basso, cioè tra i gruppi che hanno pagato più severamente le conseguenze economiche della pandemia. La ricollocazione, inoltre, non è molto diversa a seconda del settore di nuovo impiego, ma è trasversale a tutti i settori. Pertanto, per il momento, non si ha ancora una chiara evidenza che i movimenti da un lavoro a un altro siano riconducibili a significativi cambiamenti strutturali indotti dalla pandemia. 

* Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o il Sistema europeo di banche centrali.

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  1. Savino

    Per tanti le scelte iniziali erano inappropriate. Poi, è in voga andare a fare smart working nel borgo, io li farei vivere in toto nel borgo e in campagna privi delle comodità cittadine.

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