La crisi causata dalla pandemia non ha influito sulle pensioni attuali. Ha avuto e continua ad avere, però, un impatto sul mercato del lavoro, che potrebbe penalizzare di molto le prestazioni future dei lavoratori di oggi. I calcoli in una ricerca dell’Ocse.
La pandemia e le pensioni future
La crisi causata dal Covid-19 ha avuto un importante impatto sul mercato del lavoro, che influenzerà le prospettive di pensionamento e i redditi nel periodo della vecchiaia.
Il reddito dei pensionati è generalmente ben protetto durante le recessioni. Non dipende, infatti, dal mercato del lavoro, se non attraverso un’eventuale indicizzazione ai salari che è raramente applicata. Diversa, invece, è la situazione per chi lavora o sta entrando nel mercato del lavoro in una fase di recessione.
Le molteplici politiche di sostegno all’economia, come sussidi, smart-working, riduzione dell’orario lavorativo e, in generale, tutti gli strumenti volti a preservare i posti di lavoro, hanno fatto sì che l’occupazione sia scesa molto meno del Pil. In Italia, il tasso di occupazione medio annuo è diminuito del 2 per cento nel 2020, mentre il Pil è calato dell’8,9 per cento. Tuttavia, le pensioni future risentiranno degli effetti della recessione legata alla pandemia, anche in presenza di queste politiche di salvaguardia del lavoro. Pure gli interventi che hanno consentito di differire i contributi pensionistici per alcuni mesi e hanno temporaneamente abbassato o rimosso le sanzioni per i ritardi nel pagamento non potranno pienamente proteggere i redditi dei pensionati futuri.
I rischi di una carriera contributiva discontinua
Il rapporto Pensions at a Glance 2021 dell’Ocse offre alcune statistiche interessanti sulle prospettive pensionistiche dei lavoratori che hanno avuto una carriera contributiva discontinua, in particolare a causa di periodi di disoccupazione prolungati. Questi dati possono offrirci una chiave di lettura delle conseguenze della pandemia sulle pensioni future.
Come si vede in figura 1, i lavoratori uomini che percepiscono una retribuzione media e hanno cinque anni di assenza dal mercato del lavoro a causa della disoccupazione avranno una pensione pari al 94 per cento di quella di un lavoratore a carriera ininterrotta.
Il risultato varia notevolmente tra i 38 paesi Ocse: i lavoratori australiani sono i più colpiti: con cinque anni di disoccupazione la loro pensione, è l’87,7 per cento di quella di un lavoratore a piena carriera. In Portogallo, al contrario, non si riscontrano riduzioni. In Italia, il beneficio di un lavoratore che resta disoccupato per cinque anni è il 91,7 per cento di quello corrispondente a una carriera continuativa. Le ripercussioni si inaspriscono con un’interruzione di dieci anni: la prestazione pensionistica corrisponde al 73,4 per cento di quella che si ottiene con una carriera ininterrotta.
I più penalizzati sono i giovani: molti di loro lavoravano nei settori che sono stati più colpiti, come quello alberghiero e della ristorazione, e sono di solito impiegati con contratti a termine, che hanno assorbito la maggior parte del crollo occupazionale durante la pandemia. Inoltre, le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro sono aumentate. Anche verso la fine del 2020, quando il livello di occupazione totale è migliorato, il numero di lavoratori di età compresa tra 15 e 24 anni era ancora inferiore del 10 per cento rispetto all’anno prima. I contratti precari, inoltre, in alcuni casi non hanno permesso loro di ricevere un’indennità di disoccupazione.
Le difficoltà del mercato del lavoro durante una crisi economica si traducono in ritardi nell’avvio della carriera e in bassi guadagni per i giovani lavoratori, che generano perdite persistenti nei redditi di lavoro sull’orizzonte di vita.
Come illustra la Figura 2, rispetto a un lavoratore a salario medio e a piena carriera che entra nel mercato del lavoro all’età di 22 anni, gli individui che iniziano a lavorare due anni dopo e guadagnano successivamente il 30, 20 e 10 per cento in meno nei primi tre anni di lavoro, riceveranno il 96 per cento delle prestazioni pensionistiche da regimi obbligatori durante l’intero periodo di pensionamento. Il paese più colpito è il Cile, dove la pensione di un lavoratore che entra in ritardo nel mondo del lavoro è il 92 per cento di quella di un lavoratore a piena carriera. In Italia, la prestazione pensionistica è pari al 95 per cento di quella di un lavoratore che entra nel mondo del lavoro a 22 anni.
Se ai ritardi all’ingresso si associano periodi di disoccupazione, la riduzione in termini di redditi pensionistici futuri è ancora superiore.
Retributivo o contributivo: cambia poco
La riduzione nelle pensioni future non dipende dallo specifico metodo di calcolo della prestazione utilizzato.
Nel sistema retributivo, il calcolo della pensione tende a basarsi sulla situazione del mercato del lavoro al momento del pensionamento, considerando i salari percepiti durante tutta o parte della carriera. Una crescita debole del salario medio, come quella registrata nel 2020 (-0,1 per cento media Ocse) incide sul valore delle prestazioni future. Una possibile risposta discussa nel Rapporto sarebbe di introdurre nuovamente l’indicizzazione delle pensioni ai salari, così da legare le prestazioni pensionistiche al mercato del lavoro durante il pensionamento e bilanciare l’impatto della riduzione del salario medio all’uscita dal mondo del lavoro. La maggior parte dei paesi Ocse non utilizza questo meccanismo e, anzi, lo ha eliminato negli anni passati.
L’utilizzo del metodo contributivo non costituisce una soluzione. Il vuoto contributivo di coloro che hanno subito un’interruzione della carriera o un ritardo nell’ingresso del mondo del lavoro causato dalla crisi, infatti, impatterà sul calcolo delle prestazioni pensionistiche future.
Con l’allontanarsi della crisi pandemica, i governi dovranno fare i conti con questi problemi e rafforzare meccanismi di solidarietà intergenerazionale, che arginino l’onda lunga della recessione da Covid-19.
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Savino
Assurdo non considerare contributi figurativi gli anni di scuola oltre l’obbligo, l’università, la specialistica, i master post laurea, tutti i tirocini professionali ed abilitanti ed ogni altro momento formativo.
Marisa Manzin
E non si deve dimenticare che con la riforma del 2011, bisogna avere 20 anni di contributi pensionistici pagati per aver diritto alla pensione.
Chi come me, ha lavorato meno in Italia perché magari come me, si è trasferito all’estero (nel mio caso in Germania), perde tutto e cioè non ha diritto a nessuna pensione senza “riscattare” gli anni mancanti. E l’INPS non fornisce informazioni su come viene calcolato il riscatto.