In Italia si ricicla molto. Ma la produzione di rifiuti delle attività economiche rimane saldamente “ancorata” all’andamento del Pil, a differenza di quanto accade in altri paesi europei. Mancano infatti impianti adeguati alla chiusura del ciclo.
Campioni d’Europa anche nel riciclo dei rifiuti?
Non solo siamo primi, ma anche con distacco. Benché sia più ciclistica che calcistica, la metafora bene illustra le performance dell’Italia in materia di riciclo dei rifiuti speciali e, in senso più ampio, nell’economia circolare. Fra gli stati del Vecchio continente, il nostro paese guida la classifica del riciclo con percentuali che sfiorano l’80 per cento. La Francia, seconda, è distante quasi 25 punti, la Germania, terza, è al 37 per cento.
Una posizione di preminenza che ha diverse spiegazioni. Innanzitutto, la cronica mancanza di materie prime vergini o, se si preferisce, la storia di un paese da sempre abituato a convivere con la scarsità di risorse naturali. E abituato a trasformare gli scarti dei processi di lavorazione in input per altri processi produttivi (materie prime seconde), come alternativa alla più costosa importazione. Una tendenza, consolidatasi nel tempo, che non potrà che rafforzarsi in futuro, specialmente se l’attuale andamento dei prezzi di mercato delle materie prime vergini, e le tensioni geopolitiche che ostacolano il commercio internazionale, dovessero rafforzarsi.
In secondo luogo, un apporto essenziale arriva dalla qualità del tessuto economico-produttivo italiano e degli operatori industriali nelle filiere del riciclo, che hanno consolidato nel tempo la spinta al recupero dei materiali.
È come se l’Italia avesse maturato una sorta di vantaggio comparato rispetto agli altri paesi, dovendo far fronte a un contesto geopolitico particolarmente sfavorevole.
Tra i grandi stati europei, il Belpaese occupa, infatti, la prima posizione quanto a produttività delle risorse, espressa in euro di Pil per chilogrammi di risorse consumate. A ciò si aggiunge un più basso consumo interno di materiali, misurato in tonnellate pro capite.
Guardando alla circolarità dei materiali, l’Italia risulta poi pressoché allineata al primato francese. L’indice misura la quota di materiale riciclato e reimmesso nell’economia, risparmiando così l’estrazione di materie prime vergini, rispetto all’uso complessivo dei materiali. Infatti, se per la Francia tale tasso si attesta al 20 per cento nel 2019, per l’Italia il risultato è pari al 19,5 per cento. Valori ben al di sopra del 12,3 per cento della Germania e del 10 per cento della Spagna, così come della media Ue, che corrisponde all’11,8 per cento.
Nel complesso, questi pochi dati tratteggiano un’eccellenza in ambito europeo. Pur tuttavia, negli ultimi anni non sono mancati episodi nei quali il nostro paese è apparso in difficoltà nella gestione dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Criticità che si sono tradotte in aumenti dei costi di gestione, rincari dei corrispettivi di trattamento e perdite di competitività per le imprese.
Il “disaccoppiamento”, realtà o chimera?
Per ora abbiamo considerato numeri che premiavano il nostro paese per capacità di riciclare e percentuali di circolarità. Tuttavia, c’è un “ma” che chiama in causa il legame esistente tra reddito e produzione di rifiuti, secondo il quale a una maggiore intensità dell’attività economica (e quindi, a un maggiore flusso di reddito creato) corrisponde anche una maggiore quantità di rifiuto prodotto. Una situazione che purtroppo in Italia ben conosciamo, visto che la produzione di rifiuti delle attività economiche – dati alla mano – rimane saldamente “ancorata” all’andamento del Pil, peraltro con un’intensità che non si riduce nel tempo.
È interessante, in questo senso, analizzare l’esperienza degli altri maggiori paesi europei, e segnatamente di Germania, Francia e Spagna, a confronto con quella italiana.
Tra il 2010 e il 2018, Italia e Spagna fanno registrare crescite sostenute nei volumi di rifiuti prodotti, contro incrementi più contenuti per il Pil: nel caso specifico del nostro paese, con un Pil reale rimasto sostanzialmente fermo, si osserva un aumento del 23 per cento dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Al contrario, Francia e Germania presentano una dinamica più sostenuta del Pil e un incremento meno che proporzionale dei rifiuti prodotti dalle attività economiche.
Come si può osservare, nel periodo considerato, Italia e Spagna appaiono ben lontane dal disaccoppiamento tra andamento dell’attività economica e produzione di rifiuti: nel nostro paese la produzione specifica di rifiuto per unità di Pil è addirittura aumentata. In Germania l’intensità rimane sostanzialmente stabile. Mentre in Francia la crescita economica dello scorso decennio si associa a una riduzione della produzione di rifiuti per unità di Pil.
A complemento è stato calcolato un indice che misura l’intensità della produzione di tali rifiuti per unità di Pil, espresso in chili per migliaia di euro. Ne emerge che l’Italia è un paese ad alta intensità di rifiuto, con l’indicatore che nel periodo 2010-2018, passa dai 39 chili di rifiuto prodotto per migliaia di euro di Pil del 2010 ai 48 del 2018. Un’intensità decisamente superiore a quella della Francia, che con 32 chili è la nazione più virtuosa da questo punto di vista lungo l’intero lasso temporale. Vengono poi Germania con 37 e Spagna con 42.
Una evidenza simile si conferma osservando l’incidenza dei rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti sui rifiuti primari che raggiunge il 18 per cento in Italia, contro il 15 per cento della Spagna, il 12 per cento della Germania e, assai distante, il 4 per cento della Francia. Il più alto dato italiano è imputabile soprattutto alle filiere dei rifiuti da rifiuti (scarti e fanghi) e delle plastiche.
Una peculiarità che può essere letta come l’esito dell’ampio ricorso in Italia a forme di trattamento intermedie nel ciclo di gestione. In altre parole, l’elevata intensità di rifiuti da rifiuti si spiega sì in parte con la naturale propensione italiana al riciclaggio, che spinge ai modelli di gestione orientati a ottenere materie prime seconde, ma anche con l’assenza di impianti per la chiusura del ciclo.
Quest’ultima lettura è calzante soprattutto per i rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti urbani e descrive l’abitudine tutta italiana di utilizzare i trattamenti intermedi come strumento per disarticolare il principio di autosufficienza regionale nello smaltimento e quello di prossimità del recupero e dello smaltimento dei rifiuti indifferenziati. Una recente sentenza della Corte di giustizia europea chiarisce peraltro che i trattamenti meccanici non cambiano la natura del rifiuto e neanche il relativo regime giuridico. Una rete integrata adeguata di impianti di smaltimento e per il recupero energetico dei rifiuti permetterebbe di trovare collocazione a quei rifiuti o scarti difficilmente valorizzabili altrimenti.
Figura 3 – La produzione di rifiuti da attività economiche per unità di Pil
L’impiantistica attuale dovrà essere adeguata ai fabbisogni presenti e futuri, perché dal percorso di transizione energetica origineranno nuove tipologie di rifiuti, come quelli decadenti dalla sostituzione delle infrastrutture energetiche (pale eoliche e turbine di prima generazione, batterie elettriche, eccetera) e del parco auto circolante. Rifiuti nuovi, che possono diventare risorse preziose, se recuperati nel nostro paese, favorendo così la creazione di valore aggiunto e lavoro.
Si aprono altresì spazi per un efficientamento degli impianti di trattamento, volti in particolare ad accrescere il recupero di materia lì realizzato, anche per ridurre il volume di rifiuti prodotti dalle imprese che, se non selezionati, finiscono per essere destinati prevalentemente a smaltimento.
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paolo
Le percentuali di picco dei due grafici dovrebbero quantomeno indurre ad un minimo di sforzo di trasparenza: 80% riciclato, 20% riutilizzato, la differenza macroscopica del 60% appare quantomeno sospetta (tutto in inceneritore?).
Anche nel position paper completo (accessibile agli utenti registrati) sono riportati i grafici, ma non si spiega a cosa sia riferito questo 80% “della gestione” che viene riciclato. 80% di cosa dunque?
Ragionevolmente (già successo in passato per numeri analoghi) si tratta dell’80% di quanto viene raccolto dalla raccolta differenziata, e NON, come sembrerebbe supporre l’uso del grafico come “classifica” dei paesi virtuosi, del totale dei rifiuti prodotti.
Se così fosse, la posizione invidiabile dell’Italia sarebbe ottenuta solo grazie al fatto che si raccoglie in modo differenziato assai poco rispetto agli altri paesi.
Sarebbe gradito che gli autori chiarissero, mettendo a disposizione dati numerici verificabili e riferimenti completi e non vaghi.
Andrea
Buon pomeriggio Paolo, al seguente link può trovare i dati, anche più aggiornati, riferiti al tasso di circolarità nell’uso dei materiali:
https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/cei_srm030/default/table?lang=en
Relativamente all’altro dato, qua può trovare i valori percentuali, dove il totale di riferimento sono i rifiuti trattati:
https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Waste_treatment_by_type_of_recovery_and_disposal,_2018_(%25_of_total_treatment).png
Un cordiale saluto,
Andrea
Donato Berardi
Buonasera Paolo,
il dato sul riciclo è riferito ad un montante di rifiuti gestiti di circa 140milioni di tonn/anno compatibile con la gestione dei rifiuti prodotti nel Paese, tutti urbani e speciali, al netto dei rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti stessi. Con ogni probabilità % così elevate sono da riferirsi ad un avvio a riciclo, piuttosto che a riciclo effettivo. Comunque documentando una virtù giacche’ il nostro paese può vantare il primato europeo, come i dati mostrano. Nell’articolo abbiamo sottolineato come questo risultato sia da leggere anche alla luce della mancanza di impianti per la chiusura del ciclo. Il riciclo come virtù e al contempo come risposta alla mancanza di alternative, dunque non sempre efficiente. Un saluto Donato